Romanzi Storie d’amore e crudeltà nei labirinti di Palermo
Il romanzo di Giosuè Calaciura, Borgo Vecchio, dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno (e ce n’è), che in letteratura quel che conta non è mai il che cosa, ma il come in relazione al che cosa. Del resto i motivi su cui Calaciura lavora con estrema coerenza da anni sono noti: soprattutto il rapporto tra infanzia e ambiente, la difficoltà di crescere, l’innocenza delle creature più fragili («bambini e altri animali», come dice un suo titolo recente…) nel confronto con la miseria economica e morale degli adulti. Ma appunto sono motivi letterari eterni calati nella realtà o meglio nell’irrealtà siciliana, sempre in bilico tra il mondo antico e quello incompreso, o frainteso, della modernità: luoghi e tempi che non trovano sintesi né equilibrio, come ha insegnato bene un esperto del carattere nazionale, Giulio Bollati, che proprio in quella disarmonia vedeva una delle maggiori lacune dell’antropologia italiana. Dunque a maggior ragione siciliana.
Il Borgo Vecchio è un quartiere di Palermo, che potrebbe essere la contrada urbana di un qualunque meridione, non solo europeo, alle prese con la povertà e la micro e macro delinquenza diffusa nei cervelli prima ancora che nella società. Si capisce perché uno dei luoghi mitici del libro è la macelleria, lo scannatoio le cui vittime sono vittime sacrificali. Come l’agnello che viene addobbato di lucine colorate alla vigilia di Natale e scannato per Pasqua al cospetto di un pubblico curioso e feroce, magari dopo che lo stesso animale aveva condiviso l’inverno in fraternità con lo scimunito Nicola, disperato per quella fine brutale e convinto che presto lo stesso destino sarebbe toccato pure a lui.
Il romanzo, dalla trama delidi Renato Guttuso (1911-1987), Case di Palermo (1976 circa, olio su tela, particolare)
catissima, si svolge nel crudele e poetico accostamento di odori, sentimenti e personaggi opposti o ambivalenti, spesso legati da un vincolo parentale la cui vicinanza crea tragiche frizioni.
Per esempio la buttana Carmela e la figlia Celeste, che mentre la madre lavora è costretta a starsene sul balcone a fare i compiti con la finestra ben chiusa. Nello squallore della situazione sociale in cui sono costrette madre e figlia, c’è il colore, celeste come il nome della ragazza e come il manto della Madonna, la cui effigie, ritagliata da una rivista e appesa sopra il letto, si palesa agli occhi imbarazzati dei clienti intenti nel mercimonio: ma quando quelli si lamentano, Carmela risponde che «anche la Madre era stata una donna, e tutto quello che vedeva, comprendeva». E per Celeste c’è Mimmo, che la ama «con le stesse parole del suo cantante napoletano» e passa e spassa sotto casa sua quando lei è lì prigioniera del balcone, ostinata sul sussidiario avendo capito che lo studio è, in prospettiva, l’unica possibilità per evadere da quel carcere all’aperto.
Tra i barlumi che tramano il racconto c’è anche l’amicizia tra Mimmo (che non sa di chiamarsi Domenico essendo sempre stato chiamato Mimmo) e Cristofaro, il ragazzino che ogni sera dopo il tramonto deve subire le botte del padre ubriaco. E c’è Nanà, il cavallo triste acquistato da Giovanni con l’illusione di vincere tutte le corse clandestine sul circuito del mare: la sera, al buio, Cristofaro e Mimmo rimangono ad ascoltare il suo respiro «che aveva la stessa cadenza della risacca del mare».
E via via che si procede nel viaggio, che è un percorso anche sonoro, dentro il reticolo labirintico di vicoli e cortili, tra assassini potenziali e antichi odi che aspettano l’occasione giusta per sfogarsi in violenza, il racconto prende un volo come di favola: con pagine di effetto straordinario, in particolare nella parte centrale, dove il profumo del pane inebria buoni e cattivi o dove la collera di Dio contro l’ostinazione di Celeste concentrata sui libri di scuola scatena un delirio di pioggia: «Versò secchiate di acqua violenta, soffiò ruggiti di vento a gonfiare le tende del mercato che si liberarono da tutti i nodi, strapparono tutte le corde e si alzarono sul Quartiere a terrorizzare con il presagio della fine del mondo». Insomma, da meravigliarsi (ma neanche troppo, visto il conformismo dilagante) che questo breve romanzo non sia stato segnalato come uno dei libri più crudeli e felici dell’anno.