Corriere della Sera

Romanzi Storie d’amore e crudeltà nei labirinti di Palermo

- Paolo Di Stefano

Il romanzo di Giosuè Calaciura, Borgo Vecchio, dimostra ancora una volta, se ce ne fosse bisogno (e ce n’è), che in letteratur­a quel che conta non è mai il che cosa, ma il come in relazione al che cosa. Del resto i motivi su cui Calaciura lavora con estrema coerenza da anni sono noti: soprattutt­o il rapporto tra infanzia e ambiente, la difficoltà di crescere, l’innocenza delle creature più fragili («bambini e altri animali», come dice un suo titolo recente…) nel confronto con la miseria economica e morale degli adulti. Ma appunto sono motivi letterari eterni calati nella realtà o meglio nell’irrealtà siciliana, sempre in bilico tra il mondo antico e quello incompreso, o frainteso, della modernità: luoghi e tempi che non trovano sintesi né equilibrio, come ha insegnato bene un esperto del carattere nazionale, Giulio Bollati, che proprio in quella disarmonia vedeva una delle maggiori lacune dell’antropolog­ia italiana. Dunque a maggior ragione siciliana.

Il Borgo Vecchio è un quartiere di Palermo, che potrebbe essere la contrada urbana di un qualunque meridione, non solo europeo, alle prese con la povertà e la micro e macro delinquenz­a diffusa nei cervelli prima ancora che nella società. Si capisce perché uno dei luoghi mitici del libro è la macelleria, lo scannatoio le cui vittime sono vittime sacrifical­i. Come l’agnello che viene addobbato di lucine colorate alla vigilia di Natale e scannato per Pasqua al cospetto di un pubblico curioso e feroce, magari dopo che lo stesso animale aveva condiviso l’inverno in fraternità con lo scimunito Nicola, disperato per quella fine brutale e convinto che presto lo stesso destino sarebbe toccato pure a lui.

Il romanzo, dalla trama delidi Renato Guttuso (1911-1987), Case di Palermo (1976 circa, olio su tela, particolar­e)

catissima, si svolge nel crudele e poetico accostamen­to di odori, sentimenti e personaggi opposti o ambivalent­i, spesso legati da un vincolo parentale la cui vicinanza crea tragiche frizioni.

Per esempio la buttana Carmela e la figlia Celeste, che mentre la madre lavora è costretta a starsene sul balcone a fare i compiti con la finestra ben chiusa. Nello squallore della situazione sociale in cui sono costrette madre e figlia, c’è il colore, celeste come il nome della ragazza e come il manto della Madonna, la cui effigie, ritagliata da una rivista e appesa sopra il letto, si palesa agli occhi imbarazzat­i dei clienti intenti nel mercimonio: ma quando quelli si lamentano, Carmela risponde che «anche la Madre era stata una donna, e tutto quello che vedeva, comprendev­a». E per Celeste c’è Mimmo, che la ama «con le stesse parole del suo cantante napoletano» e passa e spassa sotto casa sua quando lei è lì prigionier­a del balcone, ostinata sul sussidiari­o avendo capito che lo studio è, in prospettiv­a, l’unica possibilit­à per evadere da quel carcere all’aperto.

Tra i barlumi che tramano il racconto c’è anche l’amicizia tra Mimmo (che non sa di chiamarsi Domenico essendo sempre stato chiamato Mimmo) e Cristofaro, il ragazzino che ogni sera dopo il tramonto deve subire le botte del padre ubriaco. E c’è Nanà, il cavallo triste acquistato da Giovanni con l’illusione di vincere tutte le corse clandestin­e sul circuito del mare: la sera, al buio, Cristofaro e Mimmo rimangono ad ascoltare il suo respiro «che aveva la stessa cadenza della risacca del mare».

E via via che si procede nel viaggio, che è un percorso anche sonoro, dentro il reticolo labirintic­o di vicoli e cortili, tra assassini potenziali e antichi odi che aspettano l’occasione giusta per sfogarsi in violenza, il racconto prende un volo come di favola: con pagine di effetto straordina­rio, in particolar­e nella parte centrale, dove il profumo del pane inebria buoni e cattivi o dove la collera di Dio contro l’ostinazion­e di Celeste concentrat­a sui libri di scuola scatena un delirio di pioggia: «Versò secchiate di acqua violenta, soffiò ruggiti di vento a gonfiare le tende del mercato che si liberarono da tutti i nodi, strapparon­o tutte le corde e si alzarono sul Quartiere a terrorizza­re con il presagio della fine del mondo». Insomma, da meraviglia­rsi (ma neanche troppo, visto il conformism­o dilagante) che questo breve romanzo non sia stato segnalato come uno dei libri più crudeli e felici dell’anno.

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