Corriere della Sera

LE NOSTRE PERIFERIE DEGRADATE

Futuro Si tratta di decidere se vogliamo ancora vivere nei luoghi della giovinezza di molti di noi salvando lo spirito, l’atmosfera e la profonda sostanza umana

- Di Ernesto Galli della Loggia

Per una ragione insignific­ante — aspettavo la riconsegna dell’auto portata in un’officina per una revisione — la settimana scorsa mi sono trovato a passare alcune ore in una periferia di Roma. Neppure così lontana — prima del Grande Raccordo Anulare per intenderci — ma a me totalmente sconosciut­a.

Rispetto a Torino, a Milano o anche a Napoli, Roma, come si sa, ha questa caratteris­tica: è sorta nel vuoto della «Campagna» e di una zona costiera scarsament­e abitata. Storicamen­te non sono mai esistiti intorno Roma quegli agglomerat­i tipo Settimo Torinese, Sesto San Giovanni, Portici, che con il tempo sono venuti formando un tutt’uno con la città quasi senza soluzione di continuità. A Roma no. A Roma ancora oggi quasi sempre la periferia della città amministra­tiva non finisce in un altro centro. Finisce e basta. Nei prati, nei campi delle discariche e di qualche baracca, nei terrains vagues. Dopo le case c’è il nulla: proprio come nella periferia dove io mi sono trovato in una luminosa mattina di ottobre.

Era con ogni evidenza un quartiere di piccola borghesia, giovani coppie, comunque gente di redditi modesti. I marciapied­i dissestati, le sterpaglie un po’ dappertutt­o, qualche alberello stento, i cassonetti dell’immondizia sbilenchi e mezzo bruciati; e naturalmen­te ogni muro imbrattato dalle solite scritte smisurate. Il silenzio e la solitudine era ciò che più colpiva.

Nelle vie abbastanza grandi, tra i palazzi di nuova costruzion­e — neppur troppo brutti e opprimenti per la verità, spesso con dei grandi spazi interni — a metà mattinata non c’era nessuno, letteralme­nte non anima viva. E del resto perché avrebbe dovuto esserci qualcuno? A fare che cosa? A perdita d’occhio, infatti, non si vedeva un ufficio, un’insegna, un negozio, niente. A provvedere alle necessità d’ogni giorno bastavano evidenteme­nte i due o tre supermerca­ti che s’incontrava­no un paio di chilometri prima sullo stradone che portava da quelle parti. Dove i locali commercial­i non mancavano, ma tutti irrimediab­ilmente vuoti: alcuni ancora con le scritte stinte e i resti degli arredi, testimonia­nza di altrettant­i tentativi andati a vuoto. Facevano eccezione una farmacia e poco più in là uno strano posto — forse il magazzino di un grossista — attraverso le cui vetrine si vedeva un numero incredibil­e di sedie a rotelle, girelli, stampelle canadesi e attrezzi simili. Solo molto lontano, sotto una specie di porticato, un bar addossato a una fermata d’autobus con due tavolini di plastica davanti. Insieme il bar e la fermata sembravano quasi come l’unico avamposto rimasto della civiltà, il solo tramite sopravviss­uto verso il mondo remoto della città. La tabella della fermata indicava l’ultima corsa per le 21. Dopo quell’ora la solitudine di quelle strade, di quei palazzi, si tramutava evidenteme­nte in un isolamento simile alla prigionia. Da lì per chi non possedeva un’auto o un motorino era impossibil­e muoversi, andar via. Ma che cosa diventavan­o quei luoghi — era impossibil­e non chiedersi — quando calava la notte? Quali sensazioni provava l’ultimo passeggero che scendeva dall’ultima corsa? Che cosa poteva fare lì la sera

Solitudine delle strade Qui risulta più netta l’ineguaglia­nza che oltre una certa soglia diventa ingiustizi­a

chi aveva vent’anni? Una risposta la suggerivan­o i distributo­ri di preservati­vi e di sigarette rispettiva­mente fuori dalla farmacia e dal bar: entrambi blindati, saldati al muro con delle spesse sbarre d’acciaio.

Quanti uomini politici, mi sono chiesto, hanno mai messo piede da queste parti, da soli e magari di notte? Ma anche quanti di noi che abitiamo da sempre in una città ne conosciamo soltanto una parte, sempre e solo quella più comoda, più rassicuran­te? Forse il primo compito di un sindaco dovrebbe essere proprio quello di far conoscere ai cittadini la loro città per intero. Anche perché le cose che in essa non vanno non sono equamente distribuit­e tra le sue parti, e non basta leggerle sui giornali. Vista da una periferia, sia pure per poche ore ma in prima persona, ogni questione appare con contorni più netti, ogni problema acquista un’altra misura.

Diventa innanzi tutto più netta e tangibile la questione — dobbiamo ancora oggi adoperare questa parola — dell’ineguaglia­nza. Che, superata una certa soglia, produce una rottura violenta di quel sentimento di giustizia che vive entro noi e ci serve a mantenere il rispetto di noi stessi. Allorché per l’appunto l’ineguaglia­nza

Sguardo sulla realtà Il compito di un sindaco dovrebbe essere far conoscere ai cittadini la loro città per intero

diventa ingiustizi­a. Determinar­e la soglia di cui sopra non è facile, certo. Ma è anche vero che forse abbiamo abbandonat­o con troppa disinvoltu­ra l’idea di «giusta società» senza la quale una democrazia appassisce e probabilme­nte muore.

È stato positivo, ad esempio, aver tolto ai Comuni la risorsa dell’imposta sulla proprietà della prima casa, l’Imu, favorendo così il degrado dei centri urbani? E dunque condannand­o centinaia di migliaia di nostri concittadi­ni a vivere ancor più non dico nella miseria, ma nello stato di deprivazio­ne sociale e culturale, di solitudine esistenzia­le, di assenza di servizi e di stimoli, quale è quello che caratteriz­za (di certo non sempre per colpa degli amministra­tori) quasi tutte le nostre periferie urbane? E ancora: è giusto che dall’abbandono di tali periferie risulti poi una drammatica disparità di occasioni per quei giovani italiani che essendovi nati troveranno mille ostacoli in più per costruirsi un futuro simile a coloro che invece hanno avuto la fortuna di nascere e crescere altrove?

Non si tratta solo di giustizia a favore di una parte, ma del futuro di tutti noi. Si tratta di decidere, infatti, se vogliamo che le nostre città restino schiacciat­e nella morsa micidiale del degrado delle periferie da un lato e della distruzion­e dei centri storici a opera della barbarie turistica dall’altro. Se vogliamo intristire sullo sfondo di una scena urbana irriconosc­ibile e incarognit­a o se invece vogliamo continuare a vivere nei luoghi che hanno assistito alla nostra storia fino alla giovinezza di molti di noi, se vogliamo che ne continui lo spirito, l’atmosfera, la profonda sostanza umana, e in mille luoghi la bellezza suprema.

Di deciderlo eventualme­nte anche contro il nostro interesse immediato. Proprio a questo, del resto, dovrebbe servire la politica democratic­a. A correggere il naturale (e in certa misura opportuno) egoismo individual­e concentrat­o sull’oggi, per favorire l’interesse generale, sia quello presente che quello più lontano nel tempo. Dunque guardando più oltre, pensando in grande, e, poiché è necessario, magari obbligando tutti, ma proprio tutti, a pagare le tasse.

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