Corriere della Sera

«Voleva colpire il cuore della mia New York Ma non avremo paura» Libeskind: il World Trade Center simbolo di rinascita

- dal nostro inviato a New York Giuseppe Sarcina

La casa di Daniel Libeskind, star dell’architettu­ra mondiale, si affaccia sulla West Street, dove corre, parallela al fiume Hudson, la pista ciclabile della «Strage di Halloween»: New York, 31 ottobre 2017, 8 morti e 12 feriti. «Dalla mia finestra si vede tutto. Solo due ore prima dell’attacco ero passato da lì». Libeskind, 71 anni, nato in Polonia, cittadino americano, è l’autore del «masterplan», il grande progetto di ricostruzi­one di Ground Zero, dopo l’attentato alle Torri Gemelle, l’11 settembre del 2001.

Un a s t r a g e v i c i n o a Ground Zero: qual è la sua reazione?

«Penso che l’obiettivo dell’attentator­e fosse proprio quello di arrivare fino a Ground Zero. Non ho dubbi su questo. La sua corsa folle è stata bloccata prima, in modo casuale da un bus scolastico, ma lui voleva distrugger­e tutto, seminare morte fino a qui».

Colpire il luogo simbolo, appena ricostruit­o, di New York?

«Di più. Colpire il simbolo della libertà che New York rappresent­a nel mondo: questo credo fosse il suo intento. L’area del World Trade Center oggi è il nuovo centro della metropoli. Il mio piano non prevedeva una semplice ricostruzi­one, ma molto di più. Realizzare un grande spazio aperto dove venire per lavorare, passare il tempo libero, accogliere i visitatori. È un posto pieno di abitazioni private, hotel, negozi, attività culturali. Qui sono venute ad abitare, o sono tornate, oltre 200 mila persone. Per riprendere a vivere, senza dimenticar­e quello che è successo, nel segno dell’identità del Paese. C’è il Memoriale dell’11 settembre, c’è la Freedom Tower, alta 1.776 piedi: come l’anno della Dichiarazi­one d’Indipenden­za».

Come giudica la reazione dei newyorches­i?

«Stamattina ho fatto una passeggiat­a qui vicino. C’erano centinaia di migliaia di persone in giro, oltre a tantissimi turisti. È sempre così in questa zona. Una volta si spopolava di notte, ora c’è molta animazione. La sera dell’attentato eravamo, come tutti, molto tristi, molto scossi. Però i genitori hanno deciso di mandare ugualmente i bambini alla sfilata in maschera di Halloween. Non per indifferen­za, ma per dimostrare nei fatti una verità molto chiara, niente affatto retorica: è impossibil­e non solo mettere in ginocchio, ma anche sempliceme­nte intimorire New York».

Ci saranno più misure di sicurezza, però...

«Non so, ma in ogni caso non cambierann­o la dinamica, l’enorme vitalismo di Ground Zero e dell’intera città».

Donald Trump voleva mandare il killer nella base militare di Guantanamo. Ora chiede la pena di morte e un’altra stretta sull’immigrazio­ne…

«Vedo, vedo. Ma credo che le cose andranno diversamen­te. New York ha la polizia, i tribunali, i giudici che rispettano fino in fondo la legge. E neanche il presidente degli Stati Uniti può cambiare la legge.

Ovvio: i newyorches­i vogliono che i colpevoli siano presi, processati e puniti secondo le leggi. Ma la stragrande maggioranz­a non è interessat­a a politicizz­are il terrorismo, a trasformar­lo in materia di scontro e di divisione. Non è questa la storia di una realtà che ha affrontato prove anche più dure, quando Trump non era neanche in politica».

Dopo l’11 settembre, però, ci fu un’ondata di diffidenza, se non di ostilità, nei confronti della comunità musulmana. Si può ripetere?

«Stiamo parlando di correnti estreme. Dopo l’11 settembre, New York ha confermato un messaggio molto chiaro: la libertà di espression­e, di fede, di convinzion­i non si tocca. Però c’è una cosa che mi lascia interdetto: perché la comunità musulmana di New York, degli Stati Uniti, del mondo non fa sentire la sua voce? Perché non condanna, gridando, questi atti di terrorismo? Prima di New York ci sono state Barcellona, Londra, Nizza e tanti altri luoghi. Ecco che cosa ci vorrebbe, adesso: la reazione dei musulmani».

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