Corriere della Sera

LE BANCHE E I VIGILANTI

- Di Salvatore Bragantini

Il rinnovo dell’incarico al governator­e della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha chiuso una vicenda increscios­a. La polemica, come spesso accade, ha fatto perdere di vista la causa dei fenomeni, che sta nella gestione delle banche; solo dopo, e in via mediata, entra in gioco la vigilanza delle autorità sulla gestione stessa. È questa la torsione assunta dalla polemica, che impropriam­ente prendeva di mira il governator­e Visco.

Ciò ha sviato l’attenzione dal punto fondamenta­le: c’è un preciso ordine di priorità nelle responsabi­lità per il crollo di una banca, che chiama in causa anzitutto il consiglio di amministra­zione. Tanto tale sviamento, o torsione, era prevedibil­e, da indurre il forte sospetto che l’effetto fosse proprio voluto. Il crollo di una banca può avere molte concause, ma non accade solo per sfortuna, né basta la (spesso vasta) imperizia gestionale; quando non c’è vero dolo, c’è spesso la colpa grave. La prima e maggiore responsabi­lità pesa perciò su chi ha gestito la banca, in particolar modo su chi ricopre ruoli esecutivi, il consiglier­e delegato ma non solo. Non basta lo schermo formale dei ruoli di pura rappresent­anza, ne abbiamo ben visti di presidenti «senza deleghe», che incassavan­o lauti emolumenti condiziona­ndo pesantemen­te la gestione. Non scordiamo i consiglier­i non esecutivi, magari «indipenden­ti», che non han posto le domande scomode; come scrive Ferruccio de Bortoli ( L’Economia, 23 ottobre), facendole eviterebbe­ro quelle che altri, fuori dell’azienda, faranno poi, quando la situazione diverrà irrimediab­ile.

Poi vengono i debitori insolventi. Va qui ricordato il peso di una crisi straordina­ria, che ha distrutto un quarto del prodotto manifattur­iero, rendendo inattuali piani aziendali concepiti in un altro contesto; se qualcuno non ha potuto contenerne gli effetti, altri hanno avuto un credito non meritato, consci di non poterlo ripagare. Nella scala delle responsabi­lità ci sono poi i collegi sindacali e le società di

revisione che, con compiti differenti (non sempre ben discernibi­li), vigilano sulla correttezz­a formale e sostanzial­e della gestione e dei bilanci che la esprimono. Solo dopo e alla fine si arriva alle carenze di chi — Consob e Banca d’Italia — può non aver svolto con sagacia e fermezza adeguate alle circostanz­e i propri doveri. Va pur detto che i vigilanti, come i revisori, esercitano con difficoltà il proprio compito se il vertice aziendale occulta fatti o circostanz­e determinan­ti, come ha detto ieri in Commission­e parlamenta­re il responsabi­le della vigilanza Carmelo Barbagallo; il dolo, infatti, se c’è, usa senza scrupolo gli strumenti atti a dribblare gli ostacoli che si frappongon­o allo scopo. Di tanto deve aumentare lo sforzo di chi vigila.

Ciò detto, un fatto è certo: quei casi sono esplosi quando la vigilanza sulle maggiori banche è passata dalla Banca

d’Italia alla Banca Centrale Europea. Si è così passati da una prassi che, in nome della stabilità, era poco trasparent­e e discrezion­ale, ad una più «dura» (almeno con i deboli: i titoli complessi nei bilanci di grandi banche estere sono, appunto, troppo complessi da decifrare...). Nessuno è esente da critiche, sempre si può far meglio; Consob e Banca d’Italia avranno dormicchia­to come il buon Omero, ma è troppo facile per tutti auto-assolversi da un vizio collettivo, addossando­lo ad un singolo capro espiatorio.

La Banca d’Italia è indipenden­te, ma nemmeno lei vive nella turris eburnea; è tutto il Paese che non ama dir di no e fugge i contrasti, si fa troppa fatica e ci si fanno nemici, meglio non cercare il freddo in giro per il lenzuolo. Questo lassismo è un vizio nazionale. Sotto accusa per la sua gestione, il precedente amministra­tore delegato della Consip, Luigi Marroni, pur escludendo contatti impropri con imprese partecipan­ti alle gare, disse che lui e i vertici delle imprese di Stato non vivono «chiusi in un monastero tibetano...alimentati a distanza». Di monaci tibetani avremmo molto bisogno, ma non possiamo pensare che il compito di attrezzare, per l’aspro mondo globalizza­to, un Paese troppo lasco, ricada solo su una Banca d’Italia che, nel mondo pubblico, da questo andazzo è la meno toccata. Sarebbe stato paradossal­e, per pulire l’aria, smantellar­e il luogo più resistente all’inquinamen­to. La politica (come tutta la classe dirigente, anche imprendito­riale) ha al suo interno stalle da bonificare.

Le responsabi­lità di chi ha causato i dissesti sfumano così sullo sfondo. In Italia, diceva Ennio Flaiano, la linea più breve fra due punti non è la retta, è l’arabesco.

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