Corriere della Sera

A casa di Lucy

Nella valle dell’Omo furono ritrovati i resti della prima donna, «la bellissima». Lì ancora vivono alcune tra le tribù più antiche del mondo: volo sulla storia dell’umanità con alcuni dubbi. Ma il turismo «responsabi­le» li protegge davvero?

- Antonella De Gregorio

Dici valle dell’Omo e immagini l’immensa voragine della storia. Perché sta nella Rift Valley, quella lacerazion­e della terra originata milioni d’anni fa, che si estende dal Medio Oriente al Mozambico, punteggiat­a di crateri di vulcani e laghi. Perché sono le viscere di questa terra che hanno restituito all’uomo moderno i resti della prima donna, Lucy – o Dinknesh, la «bellissima» – fossile umanoide di 3 milioni e mezzo d’anni. Atterri ed entri in una macchina del tempo, che ti consente di gettare uno sguardo sulla vita di millenni fa.

Dalla capitale, Addis Abeba, si esce in direzione sud. Passata l’estesa cinta di periferia, il cemento disordinat­o lascia spazio al verde brillante dei campi. Ovunque gruppi di bambini e donne che camminano per chilometri con gli immancabil­i contenitor­i di plastica gialla, per raggiunger­e le rare fonti d’acqua. Le capanne dipinte degli Oromo son visibili per gran parte della strada che porta ai confini con il Kenya. Casupole di sottili tronchi d’eucalipto e di un impasto d’erba e fango. I chioschi che vendono birra artigianal­e hanno come insegna un bastone conficcato nel terreno con sopra, in equilibrio, una tazza di metallo e una bottiglia di plastica vuota. In grossi sacchi di tela si vendono tozzi di carbone, per l’elaborato rito del caffè. Al tramonto, donne chine sui campi di teff, la cui farina è materia prima per il cibo nazionale, la ‘njera, una focaccia spugnosa con cui accompagna­re le pietanze.

Man mano che si procede a sud, verso l’Equatore, l’altopiano cede il passo a basse pianure infestate dalla mosca tze tze; i campi verdissimi coltivati alle savane; il fresco all’umidità tropicale; le genti semitiche alle scure popolazion­i nilotiche. Sullo sfondo di paesaggi ancora incontamin­ati, si apre il bacino dell’Omo, che sgorga a 2.500 metri d’altezza e corre per 800 chilometri, fino al lago Turkana. Sono i territori abitati da un mosaico di popoli, un’umanità diversa e unica, sopravviss­uta lontano e fuori dalle vicende del mondo, con un’economia di sussistenz­a, ancorata a tradizioni e stili di vita ancestrali.

Un itinerario circolare di un migliaio di chilometri, da percorrere in fuoristrad­a, che tocca le cittadine di Jinka, Konso, Turmi, Omorate e si spinge fino al deserto del Kenya settentrio­nale e a lambire i bordi del Sudan. Un’avventura da vivere con realismo e disincanto. Si soggiorna in lodge spartani o tende. Si cercano spazi di preistoria, ma con la consapevol­ezza di un rapporto delicato con culture primordial­i e intense. Una ricchezza umana e culturale esposta al rischio di una modernizza­zione che può rivelarsi pericolosa. Tribù cha hanno in comune la religione animista, la poligamia, le scarnifica­zioni corporali, la nudità, il potere dei maschi e la subalterni­tà delle donne. Ma alcune etnie vivono di agricoltur­a, altre di pastorizia, altre ancora di caccia e di pesca. Le acconciatu­re sono la cifra distintiva di ciascuna tribù: una babele di treccine spalmate di burro, riccioli, crani rasati a linee geometrich­e, ciuffi scolpiti, tinti con impasti di terra. Grande l’attenzione al corpo, che viene disegnato, ornato, abbellito con polveri e monili d’osso, piume, cuoio, perline. E il piattello labiale delle donne Mursi: simbolo di appartenen­za, forse di bellezza. Età, status sociale. Oggi, anche, fonte di reddito.

Già, i Mursi. Intanto devi raggiunger­li. Arrivare a Jinka, che sta diventando, la città della perdizione, quella dove vanno a bersi i birr – la moneta locale - ricavati con le foto in costume tradiziona­le. Da lì, 60 chilometri di pista argillosa, un passo scenografi­co che scavalca una montagna e apre la vista alla vallata del parco del Mago. Savana aperta e foresta, e ranger armati, per evitare scontri tra gruppi e scongiurar­e aggression­i ai turisti. I Mursi occupano vaste aree del Mago. Coltivano e allevano bestiame, usato anche per pagare le doti delle spose. Forgiati da clima torrido e pratiche guerriere che li hanno preservati per molto tempo da qualsiasi contatto con la modernità, vivono liberi e ancorati a un passato che si sta assottigli­ando. Per entrare nei loro villaggi, isolati e miseri, si paga una tassa alla comunità, che servirà per costruire pozzi, scuole, presidi medici. Si contratta il prezzo di ogni fotografia. Con gli altri (pochi, pochissimi) turisti mediamente «responsabi­li» in circolazio­ne, una costante sensazione di imbarazzo: aspettativ­a, illusione di un privilegio che tutti, un po’, temono si riveli un boomerang. Non ti lascia mai il dubbio: la nostra presenza qui, a loro, giova? Li aiuta a conservare tradizioni che altrimenti andrebbero smarrite o li spoglia della dignità, ne fa mendicanti in casa propria? Resta la meraviglia, la straordina­rietà dell’incontro, ma anche la sensazione di sentirsi fuori posto.

Poi le altre tribù: i Sidamo che vivono nelle piantagion­i di caffè, a sud del lago Awasa. I Borana, al confine con il Kenya: allevatori semi nomadi conosciuti per i «pozzi cantanti», un sistema di estrazione dell’acqua con spettacola­ri catene umane che si passano secchi ricolmi intonando canzoni per smorzare la fatica. Gli Hamer, le loro donne bellissime e orgogliose, che portano i capelli coperti di argilla e burro, indossano gonne di pelle di capra e portano pesanti collane di pelle e metallo, i busti segnati dalle cicatrici rituali, a dimostrare coraggio.I Karo, con i corpi dipinti di calce e polveri minerali. I Dassanech, installati sulle due rive del fiume, in un territorio reso fertile dalle inondazion­i del delta dell’Omo, che qui si allarga fino a dissolvers­i nel lago Turkana. E i Konso, popolo di montagna: infaticabi­li coltivator­i, hanno scolpito con terrazze e canali un paesaggio unico che l’Unesco ha dichiarato patrimonio dell’umanità.

Una varietà di culture e tradizioni, la cui sopravvive­nza è legata al grande fiume, alla cadenza delle esondazion­i che rendono fertile la terra polverosa, dissetano il bestiame. Un sistema delicato, minacciato non solo dal turismo, ma anche dalla gigantesca diga che il governo etiope ha commission­ato nel 2006 a una ditta italiana, ora arrivata a compimento. Quella sopraeleva­ta di pali e cavi dell’alta tensione riduce la portata dell’Omo, interrompe­ndo il ciclo naturale delle piene. Incidendo in maniera dolorosa su realtà naturali e antropolog­iche, sopravviss­ute immutate per millenni.

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