Corriere della Sera

La forza schiva di Navone che rifece grande il Torino

- Di Carlo Baroni

Le vite degli uomini veri sono come le case. Per resistere hanno bisogno di fondamenta solide. Il resto, finestre, porte, tetto, è solo apparenza. Buona per ingannare i superficia­li. Gli uomini veri sono spesso un passo indietro, anche quando arrivano prima degli altri. Pagano sempre il conto, persino se non si siedono a tavola. Scelgono il basso profilo, però lasciano il segno. Giuseppe Navone di case ci capiva. Faceva il costruttor­e. Come il padre, Giuseppe anche lui. Un’eredità che non gli era stata regalata per aprirgli la strada. Giuseppe l’aveva capito. Partire con le carte buone è solo l’inizio della partita. Poi dipende da te.

Quando un uomo (Cairo, con una prefazione di Vittorio Feltri) è tante cose, prima che una biografia. Una testimonia­nza densa di ammirazion­e. E anche lo spaccato di un Paese, dagli anni della rinascita a quelli cupi e oscuri del dopo boom economico. Chi l’ha scritto, Elena D’Ambrogio, conosceva bene Giuseppe Navone: ne aveva sposato il figlio Giorgio. Ci sono parti del libro tratte proprio dal diario di Giuseppe, l’embrione di quello che avrebbe potuto diventare un’autobiogra­fia. Gli anni giovanili nell’astigiano. Il viaggio con il padre verso San Paolo Solbrito e un castello da restaurare. Poi la guerra e gli anni della ricostruzi­one. Affascinan­ti e difficili. L’Italia da rimettere in piedi. In tutti i sensi. Un Paese prostrato nel morale e pieno di macerie.

Giuseppe studia economia. Tra i professori anche Luigi Einaudi. L’università, insieme alla famiglia, è una palestra per l’anima: imparerà la rettitudin­e, il senso del dovere. Senza perdere la leggerezza che deve avere un giovane uomo, la voglia di vivere. Quando comincia a lavorare con il padre, nessun privilegio, niente canali preferenzi­ali.

«Volli cominciare dal gradino più basso» scriveva. L’impresa è una famiglia che si prende cura di chi ci lavora. E anche l’ultimo dei manovali ci mette l’anima per il dottor Giuseppe. C’è tanto da fare in quell’Italia che doveva farsi accettare di nuovo dal mondo. La credibilit­à andava conquistat­a giorno per giorno. Bisognava meritarsi la fiducia. Navone ci metteva passione e impegno. In tutto. Anche in un altro grande amore della sua vita: il Toro. La squadra magica, irripetibi­le che aveva dato speranza all’Italia che rinasceva fino al giorno tragico di Superga. E come per l’Italia, dopo l’addio dei Mazzola e dei Loik, c’era tutto da ricostruir­e. Giuseppe Navone diventa dirigente dei granata. Vive la squadra «in diretta». Diventa amico dei calciatori. Uno, in particolar­e. Quello che faceva stropiccia­re gli occhi a tutti i tifosi, persino a quelli avversari: Gigi Meroni, la farfalla granata. Un ragazzo dalla sensibilit­à acuta, un artista vero e non solo con il pallone. Giuseppe va in vacanza con lui. Sono i ruggenti anni Sessanta, capelli lunghi che coprono le orecchie e i Beatles nel mangianast­ri. Sono i primi mattoni della squadra che, 27 anni dopo i fasti del Grande Torino, nel 1976, conquister­à lo scudetto. Meroni non ci sarà, travolto da un’auto quando aveva 24 anni. Ma lo scudetto è anche suo. E di Orfeo Pianelli, il presidente ma anche grande amico di Navone, il suo vice. Una grande gioia oscurata dal buio dei giorni del rapimento di Giuseppe. Una sera davanti al cinema Fiamma. Lui anche dalla prigione lotterà per la liberazion­e, i suoi familiari lo aspettano. Sanno che l’incubo dovrà finire. Ma sarà anche la fine di un’epoca per l’Italia. Da allora niente sarà come prima. Ma resta l’esempio e la parabola umana di Navone, una storia che era giusto raccontare.

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Giuseppe Navone, a sinistra, con il presidente del Torino Orfeo Pianelli, al centro, e il sindaco Diego Novelli
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