Quella lettera di don Milani ha l’inchiostro della giustizia
Cinquant’anni fa don Lorenzo Milani pubblicò Lettera a una professoressa, scatenando malintesi parzialmente chiariti solo oggi, nei ricordi pubblicati per il mezzo secolo trascorso. Chi lo volle marxista, chi incubatore del ‘68, chi rottamatore del sistema scolastico basato sul merito, per citare solo alcuni dei tentativi di etichettarlo; a tanti anni di distanza, si è cercato comunque di costringerlo storicamente all’interno del suo tempo: un’Italia rurale fondata sull’ineguaglianza tra un’élite, a cui era concesso un futuro, e tutti gli altri, condannati all’immobilità sociale. Al contrario, don Milani, come Pier Paolo Pasolini, è più attuale oggi di allora perché colse, quando nessuno sapeva vedere così lontano, il problema centrale di mondi in forte evoluzione: l’inclusione. Lasciare indietro chi non ha i mezzi per competere genera insicurezza, sfiducia, mancanza di prospettive, bisogno di proteggere i propri privilegi; e quindi egoismo, azzeramento del senso civico, corruzione. Ma una nazione moderna, se ha ancora senso esprimersi in questi termini, è tale se riesce a svilupparsi come comunità in cui ciascuno contribuisce con le proprie doti personali. Oggi sono invece sbandierati, come parametri di successo, la competitività sfrenata e la «retorica» del merito. Entro certi limiti potremmo essere d’accordo: ma chi ne definisce i criteri di valutazione? Spesso il denaro accumulato, per cui conta più un atteggiamento predatorio di uno ispirato al sentimento di condivisione (giustizia), senza il quale ogni forma di convivenza è destinata a trasformarsi in conflitto. Non è quindi attualissima la lezione di don Milani? Voleva fornire a tutti gli strumenti per sviluppare un proprio senso critico, evitando che l’ignoranza facesse perdere di vista i valori su cui costruire una comunità. Il resto sono solo speculazioni.