Nello stadio dei videogiochi
DAL NOSTRO INVIATO
Quando le squadre entrano in campo, o meglio, si siedono dietro ai loro computer al centro dello stadio, l’urlo dagli spalti è fragoroso. A confrontarsi ci sono le nazionali degli Stati Uniti, i beniamini di casa, e della Corea del Sud, i campioni indiscussi. Siamo ad Anaheim, in California, in uno stadio al chiuso da 12 mila posti. Sta per cominciare l’ultimo quarto di finale della Coppa del mondo di Overwatch. Non è calcio né basket: Overwatch è un videogioco e quella a cui stiamo per assistere è una partita di eSport, quegli sport elettronici dal valore economico in crescita verticale (700 milioni di dollari di indotto, 500 milioni di spettatori previsti entro tre anni) e che la scorsa settimana hanno ricevuto il sigillo olimpico del Cio. Sarà un altro gioco della Blizzard, Starcraft, a esordire ai Giochi invernali di Pyeongchang, nella Corea patria dei primi cyberatleti già vent’anni fa.
Tra gli almeno 10 mila tifosi americani fa capolino qualche centinaio di coreani, venuti per sostenere la propria squadra, sei ragazzi che insieme non fanno 150 anni e che in patria sono idoli assoluti, al pari di un Cristiano Ronaldo. Solo un po’ meno ricchi, ma che qualche centinaio di migliaia di dollari già se lo sono portato a casa. Così come l’adorazione dei loro coetanei: Jihyun e Yunji, sorelle di 27 e 20 anni, sono venute da Seul: bandiere di rito e un urlo acuto per cercare di sovrastare il boato statunitense. Al quale contribuisce Kenlen, 32 anni da San Diego. «Nella mia famiglia tutti giocano a basket. A me piacciono i videogiochi e trovo naturale essere diventato un fan di sport elettronici».
Gli eSport sono davvero rappresentativi di una generazione, quella dell’intrattenimento gratuito fatto di video in streaming e on demand. Un problema per i grandi marchi che stanno spingendo sul fenomeno. «Sono convinto che gli eSport abbiano le carte in regola per diventare un fenomeno di massa, così come lo sono gli sport tradizionali», spiega Mike Morhaime, fondatore e ceo di Blizzard. «Quello che dobbiamo fare è di renderli uno spettacolo maggiormente televisivo, più facile da capire». Ci proveranno dal prossimo mese, quando avrà inizio la Overwatch League, il progetto ambizioso di un campionato che coinvolgerà 12 squadre di tutto il mondo, da New York (il team è di proprietà dei Mets) a Londra (qui è sceso in campo l’Arsenal). Ma finora non ci sono riusciti.
Il quarto di finale inizia, il campo di gioco viene mostrato su quattro maxi-schermi. Per il profano il tutto risulta un’azione velocissima, dalle strategie complesse: incomprensibile. Al nostro fianco c’è Alberto Pahle, nome in codice Herc, 35 anni da Bergamo. Prova a spiegarci quello che sta succedendo: Herc non solo è uno degli allenatori della squadra italiana di Overwatch ma è anche il commentatore nazionale del gioco con più seguito. Ma non è il suo lavoro. «Ho un posto sicuro in banca, con due figli sarei matto a lasciare uno stipendio per buttarmi in un mercato che non c’è». Mentre in alcuni Paesi giocatori, allenatori e commentatori di eSport guadagnano a volte stipendi a da sogno, in Italia gli sport elettronici possono essere al momento solo un’occupazione amatoriale.
Gli americani volano sulle ali dell’entusiasmo, la Corea soffre: con 170 Paesi collegati in streaming si arriva a metà partita sull’1 a 1. Gavin, 27 anni di Los Angeles, ha portato allo stadio moglie e due amici. Cerca di trascinarli in quella che è la sua nuova passione. «Siamo stati grandi finora, ma temo che abbiamo già dato tutto: la vedo dura». Il parere dell’esperto si rivela azzeccato: la Corea chiude la partita 3-1, e si avvia a vincere la Coppa (4-1 sul Canada in finale) di questo nuovo mondo dello sport.
@VitaDigitale