Saviano, il dialetto per rispetto
L’autore entra nella natura dei personaggi rimanendo fedele al loro codice criminale e linguistico
«Tutto a posto, Maraja?». È il momento in cui l’epopea di Nicolas Fiorillo detto Maraja — cominciata nella Paranza dei bambini e continuata, come in un dittico, in questo Bacio feroce (Feltrinelli) — si sta avviando alla conclusione. «Tutt’apposto», risponde Nicolas. E in quel momento torna col pensiero all’inizio di tutto, quando «ancora non portava addosso il peso di tutti i lutti, i tradimenti, le delusioni, gli errori».
Tutto a posto. Come nel titolo di uno dei capitoli della Paranza. «È tutto a posto: l’espressione universale. L’immagine che tutto va secondo l’ordine prestabilito». Tutt’a post. Come nel tormentone di Gomorra; non il libro, però, né il film: la serie. Tra le nuove leve dei paranzini, d’altronde, i «ragazzini si pettinavano tutti alla Genny Savastano». Me sieee? T’appost! E viene in mente la polemica che accompagnò la scelta di sottotitolare la serie al momento della messa in onda sulla Rai. Viene in mente soprattutto quando, alla fine del libro, si arriva a leggere la Nota dell’autore che chiude — identica, a confermarne la compattezza — il Bacio feroce con le stesse parole della Paranza: «Una delle sfide di questo romanzo è l’uso del dialetto».
In Gomorra, nel libro, il dialetto non c’era. O meglio, c’era solo come oggetto di analisi, come spunto di riflessione. A partire proprio dal nome di Scampia, «parola di un dialetto napoletano scomparso» che «definiva la terra aperta, zona d’erbacce, su cui poi a metà degli anni 60 hanno tirato su il quartiere e le famose Vele». Lì il dialetto era tematizzato, qui è drammatizzato. Vale a dire non solo messo in scena, ma reso protagonista di tutto il racconto. Elemento fondamentale di quella «manipolazione» che, ci spiega lo stesso Saviano, è consistita nel cercare una voce «complice dei personaggi» vivi nella sua immaginazione.
Sta tutta qui la differenza tra il Saviano di Gomorra e il Saviano di questi due romanzi. Tra quel racconto in prima persona che, nello stile del reportage, oggettivava la sua materia («Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio»). E questo racconto in terza persona che — al contrario — empatizza, filtrando «la realtà sonora dell’ascolto dentro la resa del dettato». Se la voce è quella dei personaggi, la norma non può essere che il dialetto e l’italiano l’eccezione. Infatti a essere isolate dal contesto, ad attirare l’attenzione su di sé, sono ora parole come pentito, riciclaggio, socio o anche signore: «A Napoli la parola “signore” sarebbe stata considerata effemminata dalla paranza».
Poco tempo fa, i giornali hanno diffuso la lettera che un giovane camorrista ha mandato alla famiglia di una vittima per chiedere perdono. «Vengo con questo mio scritto, parlandovi dal profondo del cuore, chiedendovi umilmente scusa per il dolore causato», si legge in stampatello su un foglietto a righe. Un italiano formalmente corretto, dietro il quale — come nel caso della deposizione in tribunale raccontata nella Paranza — si avverte tutta la fatica «di tenere a bada le parole in dialetto che da sotto spingevano».
Nel Bacio feroce anche gli avvocati, messi sotto pressione, passano al dialetto. Come quello che si ritrova a chiedere un favore al Maraja e in cambio riceve una richiesta che lo spiazza: «Non saprei proprio», risponde; poi, prima di cedere, annaspa in napoletano: «Ma io n’ ’o ssaccio proprio». Nicolas l’italiano lo sa. Durante una cena in famiglia, il padre lo rimprovera per uno sprezzante vabbuo’ e gli ricorda: «Scrivi meglio di come parli». Prima di diventare il Maraja, a scuola andava bene. «Suo figlio ha talento», diceva il professore di lettere, «sa manovrare il rumore del mondo e trovare la lingua giusta per raccontarlo». Solo che nel mondo in cui Nicolas vuole trionfare — quello in cui «esistono i fottitori e i fottuti, null’altro» — l’italiano va bene solo per un onesto sconfitto come il padre. Per farsi rispettare, ci vuole il dialetto. «Che vulite?»: tutti in quel mondo, anche il cinese che gli vende la sua prima pistola, parlano «in perfetto napoletano».
Ecco: nella narrativa italiana degli ultimi decenni c’è stato il dialetto per dispetto (quello del linguaggio giovanile), il dialetto per difetto (quello legato a intenti neo-neorealistici) e il dialetto per diletto (quello alla Camilleri). Qui, potremmo dire — riprendendo una parola chiave dell’universo linguistico in cui si muove Saviano — troviamo un dialetto per rispetto. Rispetto di un codice malavitoso che è anche linguistico, e però — al tempo stesso — rispetto per la natura dei personaggi, per il loro modo di vivere, pensare, esprimersi.
Poi, certo, dal napoletano i personaggi possono uscire e rientrare in qualunque momento, alternando o mescolando — come succede un po’ in tutta Italia — lingua e dialetto. «Sono asciuto! Sono uscito!», «Che vergogna, che scuorno». A volte l’italiano serve a ribadire un concetto, come nel tesissimo dialogo tra due madri dei paranzini. «Ah, allora lo vedi ch’ ’e ssai sti fatte?», fa una; poi, più avanti, incalza: «Lo vedi che le sai ’ste storie?». «Certo che le so», ammette infine l’altra, «’e ssento mmiez’a via». Oppure contribuisce a so-
lennizzare un particolare momento. Quando la sua ragazza gli dice: «Facciamolo bene», Nicolas viene colpito proprio da «quell’insolito e improvviso scivolare fuori dal dialetto».
«Ògne scarrafóne è bèll’a màmma sóia». Secondo una notizia recente, presto nei baci Perugina si troveranno anche frasi in dialetto, napoletano compreso. È l’edizione speciale Parla come baci. Già, ma in questo romanzo i baci sono feroci e anche il dialetto è tutt’altro che sdolcinato. È, come dice lo stesso Saviano, un «dialetto “imbastardito”». Dal gergo, innanzi tutto, proprio come succedeva per i Ragazzi di vita di Pasolini. I poliziotti sono falchi, le armi ferri o fidanzate, aperitivi le estorsioni, lattuga i soldi e così via. E non sarà un caso che alcune espressioni gergali — come sgamare — accomunino il Maraja e i suoi amici (tutti identificati da soprannomi come Biscottino, Tucano, Lollipop, Drago’) al romanesco del Caciotta, del Lenzetta, del Begalone e degli altri a cui si accompagnava il Riccetto. Qualcuno ricorderà il capitolo di Gomorra in cui Saviano andava a Casarsa, sulla tomba di Pasolini, per trovare «un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilità della parola».
Ma quello stesso gergo, come il dialetto napoletano, è ormai «imbastardito» a sua volta dall’inglese. Se la consegna della droga si chiama delivery («Il delivery. La gente chiama, e voi andate a portare a domicilio»), è facile sentir pronunciare frasi come «Chest’è ’a delivery!». Se per scimmiottare il gangsta rap gli amici diventano brother, allora è normale leggere frasi come «tu nun si’ sul’, tieni tanti brò». Nelle parole di un direttore di banca, d’altronde, loro sono i «nuovi player che si impongono sul territorio»; «Noi amm’ ’a fa come Google», ripete Nicolas: cioè fidelizzare la clientela, dando la sensazione di vendere la droga gratis. I paranzini vivono tra tutorial di YouTube e ordini su Amazòn, puniscono per un post su Facebook (in questo caso non è tutt’a post) e comunicano tra loro su WhatsApp.
Questa «Camorra 2.0», però, deve fare i conti con La carne e il sangue, che non a caso è il titolo dell’epilogo. Il dialetto, «lingua della carne», è l’unico strumento adatto a raccontare tutto il sangue che scorre nella vita di Nicolas, a partire dal quel morto ammazzato visto per strada a otto anni: «C’è il sangue, c’è il sangue». La violenza è la cifra della vita che si è scelto. Una violenza che invade il racconto, assumendo a tratti toni biblici. «A uno marcirà la carne mentre starà in piedi; e i suoi medesimi occhi marciranno nelle loro orbite, e la sua medesima lingua gli marcirà in bocca» («È l’Apocalisse, Nico’», gli spiega il boss detto l’Arcangelo: «Te la devi leggere la Bibbia, si imparano un sacco di cose!»). Una violenza che cresce pagina per pagina, tra omicidi e tradimenti, tra citazioni cinematografiche e supplizi efferati, in una lotta per la vita che trova la sua immagine più nitida nel resoconto di un combattimento tra cani.
Solo che qui, a differenza di quanto accadeva nei romanzi di Jack London, non sono gli animali ad avere tratti umani: sono gli umani a rivelare la loro ferinità. Nicolas e gli altri, in fondo, sono solo bambini: «l’unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d’uomo ancora conservano». Cuccioli, come quelli di gatto, di cane, di orso, di scimmia, di tigre che vengono evocati nel corso dei due romanzi. Come «un cucciolo impaurito» è descritta la prima vittima della banda nella Paranza dei bambini; come un animale «che si ribella alla cattività» è descritto Nicolas nelle ultime pagine del Bacio feroce. È lui, ci rendiamo conto alla fine, quel cucciolo che «quasi cieco, ancora sdentato, le gengive abituate solo al morbido della madre» ha provato a mordere il suo allevatore. È suo quel morso che, raccontava Saviano nel prologo, va sotto il nome di bacio feroce.