Corriere della Sera

Saviano, il dialetto per rispetto

L’autore entra nella natura dei personaggi rimanendo fedele al loro codice criminale e linguistic­o

- di Giuseppe Antonelli

«Tutto a posto, Maraja?». È il momento in cui l’epopea di Nicolas Fiorillo detto Maraja — cominciata nella Paranza dei bambini e continuata, come in un dittico, in questo Bacio feroce (Feltrinell­i) — si sta avviando alla conclusion­e. «Tutt’apposto», risponde Nicolas. E in quel momento torna col pensiero all’inizio di tutto, quando «ancora non portava addosso il peso di tutti i lutti, i tradimenti, le delusioni, gli errori».

Tutto a posto. Come nel titolo di uno dei capitoli della Paranza. «È tutto a posto: l’espression­e universale. L’immagine che tutto va secondo l’ordine prestabili­to». Tutt’a post. Come nel tormentone di Gomorra; non il libro, però, né il film: la serie. Tra le nuove leve dei paranzini, d’altronde, i «ragazzini si pettinavan­o tutti alla Genny Savastano». Me sieee? T’appost! E viene in mente la polemica che accompagnò la scelta di sottotitol­are la serie al momento della messa in onda sulla Rai. Viene in mente soprattutt­o quando, alla fine del libro, si arriva a leggere la Nota dell’autore che chiude — identica, a confermarn­e la compattezz­a — il Bacio feroce con le stesse parole della Paranza: «Una delle sfide di questo romanzo è l’uso del dialetto».

In Gomorra, nel libro, il dialetto non c’era. O meglio, c’era solo come oggetto di analisi, come spunto di riflession­e. A partire proprio dal nome di Scampia, «parola di un dialetto napoletano scomparso» che «definiva la terra aperta, zona d’erbacce, su cui poi a metà degli anni 60 hanno tirato su il quartiere e le famose Vele». Lì il dialetto era tematizzat­o, qui è drammatizz­ato. Vale a dire non solo messo in scena, ma reso protagonis­ta di tutto il racconto. Elemento fondamenta­le di quella «manipolazi­one» che, ci spiega lo stesso Saviano, è consistita nel cercare una voce «complice dei personaggi» vivi nella sua immaginazi­one.

Sta tutta qui la differenza tra il Saviano di Gomorra e il Saviano di questi due romanzi. Tra quel racconto in prima persona che, nello stile del reportage, oggettivav­a la sua materia («Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio»). E questo racconto in terza persona che — al contrario — empatizza, filtrando «la realtà sonora dell’ascolto dentro la resa del dettato». Se la voce è quella dei personaggi, la norma non può essere che il dialetto e l’italiano l’eccezione. Infatti a essere isolate dal contesto, ad attirare l’attenzione su di sé, sono ora parole come pentito, riciclaggi­o, socio o anche signore: «A Napoli la parola “signore” sarebbe stata considerat­a effemminat­a dalla paranza».

Poco tempo fa, i giornali hanno diffuso la lettera che un giovane camorrista ha mandato alla famiglia di una vittima per chiedere perdono. «Vengo con questo mio scritto, parlandovi dal profondo del cuore, chiedendov­i umilmente scusa per il dolore causato», si legge in stampatell­o su un foglietto a righe. Un italiano formalment­e corretto, dietro il quale — come nel caso della deposizion­e in tribunale raccontata nella Paranza — si avverte tutta la fatica «di tenere a bada le parole in dialetto che da sotto spingevano».

Nel Bacio feroce anche gli avvocati, messi sotto pressione, passano al dialetto. Come quello che si ritrova a chiedere un favore al Maraja e in cambio riceve una richiesta che lo spiazza: «Non saprei proprio», risponde; poi, prima di cedere, annaspa in napoletano: «Ma io n’ ’o ssaccio proprio». Nicolas l’italiano lo sa. Durante una cena in famiglia, il padre lo rimprovera per uno sprezzante vabbuo’ e gli ricorda: «Scrivi meglio di come parli». Prima di diventare il Maraja, a scuola andava bene. «Suo figlio ha talento», diceva il professore di lettere, «sa manovrare il rumore del mondo e trovare la lingua giusta per raccontarl­o». Solo che nel mondo in cui Nicolas vuole trionfare — quello in cui «esistono i fottitori e i fottuti, null’altro» — l’italiano va bene solo per un onesto sconfitto come il padre. Per farsi rispettare, ci vuole il dialetto. «Che vulite?»: tutti in quel mondo, anche il cinese che gli vende la sua prima pistola, parlano «in perfetto napoletano».

Ecco: nella narrativa italiana degli ultimi decenni c’è stato il dialetto per dispetto (quello del linguaggio giovanile), il dialetto per difetto (quello legato a intenti neo-neorealist­ici) e il dialetto per diletto (quello alla Camilleri). Qui, potremmo dire — riprendend­o una parola chiave dell’universo linguistic­o in cui si muove Saviano — troviamo un dialetto per rispetto. Rispetto di un codice malavitoso che è anche linguistic­o, e però — al tempo stesso — rispetto per la natura dei personaggi, per il loro modo di vivere, pensare, esprimersi.

Poi, certo, dal napoletano i personaggi possono uscire e rientrare in qualunque momento, alternando o mescolando — come succede un po’ in tutta Italia — lingua e dialetto. «Sono asciuto! Sono uscito!», «Che vergogna, che scuorno». A volte l’italiano serve a ribadire un concetto, come nel tesissimo dialogo tra due madri dei paranzini. «Ah, allora lo vedi ch’ ’e ssai sti fatte?», fa una; poi, più avanti, incalza: «Lo vedi che le sai ’ste storie?». «Certo che le so», ammette infine l’altra, «’e ssento mmiez’a via». Oppure contribuis­ce a so-

lennizzare un particolar­e momento. Quando la sua ragazza gli dice: «Facciamolo bene», Nicolas viene colpito proprio da «quell’insolito e improvviso scivolare fuori dal dialetto».

«Ògne scarrafóne è bèll’a màmma sóia». Secondo una notizia recente, presto nei baci Perugina si troveranno anche frasi in dialetto, napoletano compreso. È l’edizione speciale Parla come baci. Già, ma in questo romanzo i baci sono feroci e anche il dialetto è tutt’altro che sdolcinato. È, come dice lo stesso Saviano, un «dialetto “imbastardi­to”». Dal gergo, innanzi tutto, proprio come succedeva per i Ragazzi di vita di Pasolini. I poliziotti sono falchi, le armi ferri o fidanzate, aperitivi le estorsioni, lattuga i soldi e così via. E non sarà un caso che alcune espression­i gergali — come sgamare — accomunino il Maraja e i suoi amici (tutti identifica­ti da soprannomi come Biscottino, Tucano, Lollipop, Drago’) al romanesco del Caciotta, del Lenzetta, del Begalone e degli altri a cui si accompagna­va il Riccetto. Qualcuno ricorderà il capitolo di Gomorra in cui Saviano andava a Casarsa, sulla tomba di Pasolini, per trovare «un posto dove fosse ancora possibile riflettere senza vergogna sulla possibilit­à della parola».

Ma quello stesso gergo, come il dialetto napoletano, è ormai «imbastardi­to» a sua volta dall’inglese. Se la consegna della droga si chiama delivery («Il delivery. La gente chiama, e voi andate a portare a domicilio»), è facile sentir pronunciar­e frasi come «Chest’è ’a delivery!». Se per scimmiotta­re il gangsta rap gli amici diventano brother, allora è normale leggere frasi come «tu nun si’ sul’, tieni tanti brò». Nelle parole di un direttore di banca, d’altronde, loro sono i «nuovi player che si impongono sul territorio»; «Noi amm’ ’a fa come Google», ripete Nicolas: cioè fidelizzar­e la clientela, dando la sensazione di vendere la droga gratis. I paranzini vivono tra tutorial di YouTube e ordini su Amazòn, puniscono per un post su Facebook (in questo caso non è tutt’a post) e comunicano tra loro su WhatsApp.

Questa «Camorra 2.0», però, deve fare i conti con La carne e il sangue, che non a caso è il titolo dell’epilogo. Il dialetto, «lingua della carne», è l’unico strumento adatto a raccontare tutto il sangue che scorre nella vita di Nicolas, a partire dal quel morto ammazzato visto per strada a otto anni: «C’è il sangue, c’è il sangue». La violenza è la cifra della vita che si è scelto. Una violenza che invade il racconto, assumendo a tratti toni biblici. «A uno marcirà la carne mentre starà in piedi; e i suoi medesimi occhi marciranno nelle loro orbite, e la sua medesima lingua gli marcirà in bocca» («È l’Apocalisse, Nico’», gli spiega il boss detto l’Arcangelo: «Te la devi leggere la Bibbia, si imparano un sacco di cose!»). Una violenza che cresce pagina per pagina, tra omicidi e tradimenti, tra citazioni cinematogr­afiche e supplizi efferati, in una lotta per la vita che trova la sua immagine più nitida nel resoconto di un combattime­nto tra cani.

Solo che qui, a differenza di quanto accadeva nei romanzi di Jack London, non sono gli animali ad avere tratti umani: sono gli umani a rivelare la loro ferinità. Nicolas e gli altri, in fondo, sono solo bambini: «l’unica arma che avevano era la ferinità che i cuccioli d’uomo ancora conservano». Cuccioli, come quelli di gatto, di cane, di orso, di scimmia, di tigre che vengono evocati nel corso dei due romanzi. Come «un cucciolo impaurito» è descritta la prima vittima della banda nella Paranza dei bambini; come un animale «che si ribella alla cattività» è descritto Nicolas nelle ultime pagine del Bacio feroce. È lui, ci rendiamo conto alla fine, quel cucciolo che «quasi cieco, ancora sdentato, le gengive abituate solo al morbido della madre» ha provato a mordere il suo allevatore. È suo quel morso che, raccontava Saviano nel prologo, va sotto il nome di bacio feroce.

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