Corriere della Sera

«No a rese dei conti Creiamo un’alleanza»

- Di Francesco Verderami

Tre premesse: non ha senso intestare la sconfitta a Renzi; non usare il risultato per fini interni; no alla resa dei conti del Pd. Poi Dario Franceschi­ni propone di fare un’alleanza tipo quella che Berlusconi ha fatto nel centrodest­ra. «Talvolta a scuola si copia per essere promossi».

L’impression­e è che non ci sarà nessun terremoto politico. Per quanto sgualcito dagli elettori e criticato dagli avversari, Matteo Renzi resterà segretario del Pd e, se riuscirà, anche candidato a Palazzo Chigi; ma solo per il suo partito. Dietro l’apparente apertura, i dem si preparano a confermare la blindatura del segretario. E nessuno tra quanti sono additati come la fronda interna ha la voglia né la forza di azzardare la resa dei conti a pochi mesi dal voto politico. La nomenklatu­ra che si è riunita intorno a Renzi, cementata dalla battaglia referendar­ia persa nel dicembre scorso e dalla scissione, rimane con lui.

L’insuccesso in Sicilia e a Ostia viene riconosciu­to come «sconfitta», con molte scusanti. La tentazione di scaricare la responsabi­lità sugli scissionis­ti dell’Mdp, sull’eredità della giunta Crocetta, e perfino, in modo maldestro, sul «no» del presidente del Senato Pietro Grasso a candidarsi, è istruttiva. Fa registrare l’ennesimo tentativo di trovare all’esterno responsabi­lità che sono del gruppo dirigente, locale e nazionale. D’altronde, il magro risultato della lista guidata da Claudio Fava cancella l’incubo di una concorrenz­a del gruppo di Pierluigi Bersani al Pd renziano.

La sconfitta è di tutta la sinistra. E il vertice dem ha gioco facile nel bollare le «strumental­izzazioni». Renzi commenta il forfait di Luigi Di Maio per il faccia a faccia con lui su La7. Replica al candidato del M5S a Palazzo Chigi che ha definito «defunto» il Pd e liquidato Renzi come un ex candidato premier; ma in realtà sembra parlare al proprio partito. «Il leader del Pd», scrive, «lo decidono le primarie, cioè la democrazia interna. Non le correnti, non il software di un’azienda privata».

Suona come un avvertimen­to a quel «club dei ministri» evocato come grumo ostile alla sua leadership. Il presidente del Pd, Matteo Orfini, ma anche governator­i regionali come Michele Emiliano, fanno presente che è impensabil­e chiedere un passo indietro al segretario. La verità è che scaricare le responsabi­lità sul solo Renzi è difficile, per un gruppo dirigente che ne ha condiviso le decisioni per anni. I dem sono prigionier­i dei risultati del congresso e dell’assenza di alternativ­e. Il pericolo di rimuovere l’emorragia di voti, tuttavia, è in agguato.

Per questo, dietro le parole da trincea aumenta la consapevol­ezza che gli insuccessi esigono un superament­o dello schema egemone utilizzato finora. L’ipoteca su Palazzo Chigi sfuma. Si cercano alleati. E l’uscita di Grasso, che ieri ha ricevuto Giuliano Pisapia in Senato, agita il partito in modo inaspettat­o. L’impression­e è che tra i dem Renzi continui a non avere avversari insidiosi. Ma aumentano i problemi fuori, nel rapporto compromess­o con l’elettorato. Il centrodest­ra è resuscitat­o, il M5S si è rafforzato, e l’astensioni­smo cresciuto. Per questo sarà duro uscirne indenni.

Ma gli scossoni del dopo voto difficilme­nte metteranno in discussion­e la segreteria di Renzi La vera sfida è con l’elettorato

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