«Le correzioni in corsa di Rajoy»
Lo storico leader popolare sprona il successore a Madrid
Ci sono ex presidenti chiusi nel silenzio e altri che pesano, spostano voti, criticano i successori. José Maria Aznar appartiene alla seconda categoria. «Sono un semplice iscritto al Partido Popular» si schernisce l’uomo che designò come erede politico l’attuale premier Mariano Rajoy. Ma è impossibile credergli. La stampa lo chiama «falco», a 13 anni dal suo ultimo governo, Aznar resta leader ideologico dell’ala dura del centro-destra spagnolo laddove Rajoy sarebbe la colomba. In questa intervista al Corriere, Aznar lancia tre messaggi. Uno. «La crisi catalana è gravissima, rimette in gioco gli equilibri della Transizione alla democrazia. Qualche nuovo attore potrebbe pensare di sostituirsi alla politica». Due. Il presidente Rajoy ha agito «male e tardi, ma ora finalmente è sulla strada giusta». Tre. «La crisi economica ha indebolito le democrazie. La Spagna così come tutta Europa devono recuperare la fiducia dei cittadini ripartendo dagli Stati nazionali e dall’agenda di Lisbona del 2000 per fare il più grande spazio economico del mondo».
Presidente Aznar, l’accusano di aver aiutato a creare questa situazione concedendo ai Mossos d’Esquadra la responsabilità della sicurezza in Catalogna.
«Fino al 2004 il catalanismo accettava le regole costituzionali. Lo chiamavamo “pactismo” e tre premier lo sperimentarono: Adolfo Suárez dell’Udc, il socialista Felipe Gonzalez e io. La costituzione democratica riconosceva la pluralità spagnola in cambio di lealtà. Per cui i secessionisti di oggi, non solo hanno tentato un colpo di Stato, ma hanno anche rotto il patto della Transizione, sono stati sleali».
Però dando più autonomia, lei ha contribuito a creare una Catalogna che si sente diversa dal resto del Paese.
«L’“accordo del Majestic” con il catalanista Jordi Pujol fu un patto pubblico che portò ad avere più Spagna, non meno Spagna. Il Paese crebbe economicamente, fu membro fondatore dell’euro, partecipava a tutte le decisioni internazionali rilevanti. Per questo 4 anni dopo mi premiarono con maggioranza assoluta».
E poi?
«I partiti costituzionalisti, non solo il Pp, anche i socialisti, hanno smesso di fare politica a Barcellona e hanno lasciato ai catalanisti il monopolio dell’immaginario. Risultato: la radicalizzazione, l’odio, una mitologia assurda».
In mezzo però c’è stata la crisi economica del 2008. Per Rajoy era difficile «comprare» la fedeltà catalana.
«Non si tratta di comprare. L’antidoto è un progetto nazionale di successo che non significa solo uscire dalla crisi, ma dare soluzioni di politica sociale, culturale, internazionale. Non voglio convincere i secessionisti in 15 giorni, voglio un progetto nazionale forte».
Pensa al premier Rajoy, perché non lo nomina?
«L’inerzia è una cattiva consigliera e l’assenza di progetto fomenta le spinte centrifughe. Dire che non stava accadendo nulla, che le cose si sarebbero risolte da sole, è stato un errore. Però adesso la strada del ristabilimento dell’ordine costituzionale è giusta. Si poteva fare prima, ma ora conta vincere le elezioni del 21 dicembre».
E se vincesse l’indipendentismo al 99%? Non sarebbe più democratica una separazione consensuale?
«Lo farebbe l’Italia con la Lombardia? L’ha fatto Lincoln con gli Stati Confederati americani? Qualsiasi riforma costituzionale che non impedisca il ripetersi degli errori commessi, sarebbe uno sbaglio».
Nessun diritto di autodeterminazione?
«Esiste anche il mio diritto, non solo quello dei separatisti. Il destino della Spagna lo devono decidere tutti gli spagnoli. I politici catalani si sono coperti di ridicolo, ma hanno portato una gran crisi nel Paese. Non sono gente seria».
Lo scrittore Arturo Perez Reverte ha detto che questa crisi spiega la Guerra Civile meglio dei libri di storia.
«Ha ragione, ma non bisogna confondere. Nel ’34 i catalani tentarono un golpe indipendentista che fu controllato dalla Repubblica. Solo due anni dopo, nel ’36, scoppio la Guerra. Non si ripeterà».
Però il nazionalismo spagnolo si è risvegliato. Madrid è piena di bandiere.
«Ed è entusiasmante. La gente dice “mi interessa”. Esiste ancora la possibilità di incanalare il fenomeno in modo corretto. Però se la Spagna non sarà ben difesa, potrebbe arrivare qualcuno che pretenda di farlo meglio».
Pp e socialisti hanno smesso di fare politica a Barcellona, lasciando ai catalanisti il monopolio dell’immaginario