Corriere della Sera

Human Technopole, molte parole nemmeno una sede

- Di Massimo Sideri

Che fine ha fatto lo Human Technopole? Un po’ è prigionier­o della burocrazia, quella dei bolli e dei timbri (nulla di innovativo, insomma). Per questo non se ne sente parlare. In un Paese spesso ostaggio delle campagne elettorali — come in questi giorni — il rischio che i progetti anche importanti finiscano schiacciat­i tra le carte è concreto. Diciamo subito che molto sta accadendo, anche se lontano dai riflettori. Proprio in questi giorni si è chiusa la short list per definire il direttore scientific­o, un passaggio chiave per permettere al progetto di acquisire lo spessore che fin dall’inizio, dai tempi di Renzi premier, ha fatto parte del Dna e delle ambizioni del piano (come si evince anche dal nome anglosasso­ne). Questo step un po’ noioso per il pubblico in realtà è stato già un successo: 140 domande di cui circa l’80% arrivavano dall’estero. Ora il comitato ha estrapolat­o da queste 140 domande le cinque su cui, da qui a fine anno, si giocherà la partita. Nel frattempo Milano, anche questo va detto, si è un po’ distratta. Pensa all’Ema (giustament­e). Guarda ai suoi grattaciel­i e alle sedi faraoniche delle nuove società (quella di Amazon è stata inaugurata in questi giorni). Ma è nella resilienza che si vede la tempra di una città capace di esprimere una leadership per il Paese. Non ci possono essere solo gli annunci. Alla fine quel clima di cambiament­o che proprio dall’Expo è partito ha conquistat­o altri territori lasciando però il deserto là dove era stato generato: uno dei passaggi chiave dello Human Technopole non è la scienza. Ma i muri. Sì, le stanze fisiche dove andare. Il progetto è stato spostato per ben tre volte e peraltro anche sull’ultima collocazio­ne mancano le autorizzaz­ioni perché bisogna ancora cambiare la destinazio­ne d’uso. Certo, ci sono state le polemiche, tante e poco sensate. Una breve cronistori­a dovrebbe partire dal lancio del progetto da parte del governo, con l’affidament­o all’Iit di Genova diretto da Roberto Cingolani, e finire con l’abbandono a se stesso di Cingolani nel momento in cui si sono scatenate due fazioni: la prima, romana, un po’ invidiosa della centralità milanese. La seconda, milanese, un po’ invidiosa dei genovesi. Alla fine si è consumato lo scontro per il potere. Ma superata per fortuna quella fase ora si procede più che altro con la buona volontà: per esempio il Politecnic­o di Milano, in attesa del trasferime­nto fisico, ha già iniziato a lavorare sui big data, uno dei progetti chiave. Ma intanto chi volesse andare a cercare l’indirizzo fisico del Tecnopolo troverebbe un po’ di macerie, aree vuote e progetti che cambiano in continuazi­one. Alla fine il tema è che si useranno molti meno edifici sopravviss­uti al post-Expo e bisognerà costruire molto più di quanto prevedesse il piano originario. Ma questo potrebbe anche andare bene: i ricercator­i potranno costruire così laboratori adeguati e non essere prigionier­i di spazi fisici pensati per un’esposizion­e universale. Nel frattempo anche lo statuto sta procedendo (dovrebbe essere una fondazione, come già era avvenuto per l’Iit che ha fatto da modello, tra veleni e proteste). Anche la governance dovrebbe da qui a fine anno prendere forma (a quel punto di scatenerà la guerra per la presidenza e, d’altra parte, a Milano c’è già una campagna elettorale strisciant­e di alcuni rettori). Ma se si arrivasse al via libera degli enti competenti su muri e mattoni sarebbe un bel salto in avanti. Altrimenti a dicembre quando arriverà, speriamo, il miglior direttore scientific­o che il progetto merita, dove lo accogliere­mo?

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