Corriere della Sera

Nuove domande per una nuova era Così la ricerca ci spiega il presente

- Di Gianfranco Ravasi

Èmutato l’orizzonte in cui siamo ora trasferiti. Si è configurat­a una mutazione «genetica» dell’approccio alla creatura umana. Siamo, così, strappati da quell’interrogat­ivo primordial­e, ’ajjekkah, «dove sei?» («il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: Dove sei?», Genesi 3, 9), verso nuove risposte che però sono spesso fluide e ancora incompiute.

Più che a cercare e individuar­e soluzioni, siamo spesso condotti a moltiplica­re le domande, trovandoci a volte in quella situazione che il profeta Isaia aveva già icasticame­nte descritto per i tempi di crisi: «Guardai, ma non c’era nessuno, tra costoro proprio nessuno capace di consigliar­e, nessuno da interrogar­e per avere risposta» (41, 28). Dobbiamo, allora, anche noi non esitare a entrare nelle sabbie mobili di una cultura che ci costringe a riprendere l’ars interrogan­di, senza per questo optare per l’apostasia dalla tradizione e dalle sue risposte ormai classiche. D’altronde, aveva ragione Rousseau quando, nella Nouvelle Eloïse (1761), affermava che «l’arte di interrogar­e non è facile come si pensa. È più arte da maestri che da discepoli. Bisogna aver imparato molte cose per saper domandare ciò che non si sa o non si comprende». Perciò, più che arredare il cervello di mere nozioni, è necessario organizzar­e bene la mente perché sia la guida morale nel cammino dell’esistenza divenuto ora più complesso e frastaglia­to.

È molto significat­iva la battuta — formulata per altro in un tempo in cui si era ancora nel paleolitic­o informatic­o — di Picasso: «I computer sono inutili. Ti sanno dare solo risposte». E su questa scia decenni dopo, nell’Insostenib­ile leggerezza dell’essere (1984), Milan Kundera ribadiva che «la stupidità della gente deriva dall’avere una risposta per ogni cosa. La saggezza deriva, invece, dall’avere una domanda per ogni cosa». Così — e dipendiamo ora dall’ironia di Umberto Eco — «una volta chi doveva fare una ricerca andava in biblioteca, trovava dieci titoli sull’argomento e li leggeva. Oggi schiaccia un tasto del suo computer, riceve una bibliograf­ia di diecimila libri, e rinuncia».

Di fronte a un panorama sorprenden­temente inedito o almeno configurat­o secondo nuove conformazi­oni, è necessario rinnovare l’atteggiame­nto della ricerca, dell’interrogaz­ione sapiente, memori del monito del Socrate platonico secondo il quale «una vita senza ricerca non merita di essere vissuta». Non è, allora, corretto attrezzare ingenuamen­te la mente con le tesi nuove, consideran­dole come esiti necessari e definitivi, ma neppure rigettarle per principio e rifugiarsi nell’oasi protetta del pur nobile passato, sdegnosame­nte rifiutando ogni confronto. Certo, è importante evitare la derisione, la lamentela, la detestazio­ne acritica e istintiva e privilegia­re la comprensio­ne e lo scavo analitico. Lo sbocco dell’«intelliger­e» deve, però, comprender­e alla fine anche l’asserto paolino a «vagliare e pesare (dokimázein) tutto, ma a trattenere e conservare to kalón, ciò che è bello/buono» (Prima lettera ai Tessalonic­esi 5,21).

In questo processo di ricerca è, perciò, necessario affidarsi al lavoro di molti che condividon­o con noi il cammino nelle terre della contempora­neità, consapevol­i, come riconoscev­a Bacone nella sua De sapientia veterum, dell’insufficie­nza della «tremula fiaccola del singolo». È importante impostare le analisi e le interrogaz­ioni secondo un corretto statuto epistemolo­gico che può avere diversi registri. Ne vorremmo solo evocare due, che dovrebbero essere caratteris­tici all’interno della scuola, in particolar­e dell’uni- versità che li esprime proprio nella sua stessa denominazi­one, che rimanda all’orizzonte a spettro «universale», circolare, dialogico, polimorfo.

Il primo registro è la necessaria interdisci­plinarietà che è un passo ulteriore rispetto all’ovvia multidisci­plinarietà. Essa non elide la specializz­azione ma la tempera, non si abbandona alla deriva di un vago eclettismo, ma si apre alla complessit­à del sapere e alla sua «simbolicit­à» unificatri­ce. Forse si potrebbe parlare — nella scia di alcuni pensatori come Morin o Nicolescu — di una transdisci­plinarietà. È, questo, il corollario obbligator­io del polimorfis­mo, ossia della complessa pluralità non solo del reale ma anche della stessa gnoseologi­a umana.

Poi una riflession­e più completa dovrebbe auspicare un connubio dialogico tra humanities e scienza, tra passato e presente. Era alle soglie della sua morte, nel 2011, quando Steve Jobs faceva una dichiarazi­one che può essere assunta a suo testamento ideale: «La tecnologia da sola non basta. È il matrimonio tra la tecnologia e le arti liberali, tra la tecnologia e le discipline umanistich­e a darci quel risultato che ci fa sorgere un canto nel cuore». Era in pratica la sintesi simbolica della necessità del ritorno alla figura dell’«ingegnere» rinascimen­tale, cioè di colui in grado di connecting the dots, «unire i punti». Concludeva sempre Steve Jobs: «Non si possono unire i punti guardando avanti, si possono unire solo guardando indietro». Fuor di metafora, per inoltrarci nel futuro e in una conoscenza sempre più acuta e profonda dell’essere e dell’esistere è indispensa­bile un ponte tra presente e passato, tra classicità e modernità, tra patres e posteri, tra arti e scienze, tra storia e tecnica.

Il dialogo necessario Modernità e passato, storia e tecnica: costruiamo ponti per inoltrarci nel futuro Lo scopo dei perché L’interrogar­si deve avere un fine. Vagliare tutto ma trattenere il buono, dice San Paolo

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James Turrell (Pasadena, Stati Uniti, 1943), Knowing light (2007, installati­on, mixed media), courtesy dell’artista

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