FRAMMENTI (E OMBRE) DI MEMORIA
Ci sono dei passi illuminanti nella testimonianza di Mario Botta che accompagna questa sorta di diario di mezzo secolo (dal 1992 al 2017), Il volto, l’ombra, la memoria di Andrea Martinelli (Le Lettere, pp. 104, € 14). Soprattutto là dove si parla del «legame profondo fra l’ambiente di lavoro e la poetica dell’artista». Botta — ch’è anche un eccellente prosatore — ritiene che «lo spazio nel quale si opera non è un’entità neutra». Qualche esempio? L’atelier parigino di Alberto Giacometti, le cui «figure documentano esaurientemente anche lo spirito di rue Hippolyte-Maindron» e quello del collega svizzero Max Bill, le cui composizioni «parlano dell’ordine e delle geometrie del suo laboratorio razionalista».
Mario Botta visita lo studio che Martinelli ha nella natìa Prato e lo scandaglia da architetto e da spettatore che riesce ad emozionarsi dinanzi allo sguardo dei personaggi ritratti, soprattutto da quello del nonno del pittore toscano («Un volto frontale con un sorriso appena accennato sulla bocca sdentata»). Un realismo esasperato che parte dal secolo di Dürer e oscilla sino alla Nuova oggettività d’uno Schad, costeggiando però Giacometti, Bacon, Lucian Freud, Balthus e López García. Ma anche facendo il cammino inverso.
Il volto, l’ombra, la memoria è uno zibaldone con appunti in prosa, esplicativi del lavoro di Martinelli («Mi attirano molto carte e supporti vecchi, usurati dal tempo, forse per un desiderio e sensazioni che purtroppo oggi molti vogliono rinnegare e dimenticare»; «I miei volti e le mie figure nascono tutte dall’ombra. Sono, in fondo, ombre che prendono vita e che a loro volta generano altre ombre»; «Lavoro dalle otto alle dieci ore al giorno in uno stato di competo isolamento, direi “monacale” e “maniacale”», «Da qualche anno firmo le mie opere con lo pseudonimo “Mistral” che per me è il suono del vento, della lontananza»); versi (Il cercatore di luce, La strada); dialoghi (con Leonardo Cremonini); incontri che il Carlino Bo avrebbe definito «capitali» (Giovanni Testori, Piero Bigongiari, Gianni Berengo Gardin cui si devono le foto contenute alla fine del volumetto).
Alcune pagine di Martinelli sono dedicate ai disegni dei volti («Quelli che decido di ritrarre non sono altro che il pretesto per potermi raccontare»). S’è già detto: l’artista parte dalla fotografia. Dagli scatti al disegno minuzioso, al dipinto. Tratti aspri. A parte rare eccezioni, i soggetti dell’«anatomo-patologo» Martinelli erano quasi sempre anziani, scelti fra quelli il cui viso era simile ai solchi di un aratro e rappresentava il disfacimento fisico. Non a caso il titolo della sua prima mostra, nel ’92, era Senescenze.
Come Schad, Martinelli viene dalla scuola d’arte e dall’Accademia, dove ha appreso i rudimenti del mestiere per diventare un eccellente disegnatore, prima che pittore. Ma la tecnica rappresenta solo la base del suo lavoro. Per il resto egli si affida ad una straordinaria capacità creativa e allo studio della pittura antica, dei maestri italiani e, soprattutto, di quelli nordici. Lo dimostrano le continue «citazioni» che si amalgamano fra di loro, senza che egli tenti di nasconderle o di contrabbandarle.
L’artista toscano indaga i personaggi e ne scandaglia i volti dai tratti deformati — incisi piuttosto che dipinti — che diventano un vero e proprio paesaggio. Esattamente come fa una vanga con le zolle. «Il volto è diventato il mio destino — annota —. L’ho disegnato e cercato quando ero piccolo per difendermi dagli altri e lo disegno ancora oggi per cercare un’ombra, la luce. La mia vita».