Corriere della Sera

FRAMMENTI (E OMBRE) DI MEMORIA

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Ci sono dei passi illuminant­i nella testimonia­nza di Mario Botta che accompagna questa sorta di diario di mezzo secolo (dal 1992 al 2017), Il volto, l’ombra, la memoria di Andrea Martinelli (Le Lettere, pp. 104, € 14). Soprattutt­o là dove si parla del «legame profondo fra l’ambiente di lavoro e la poetica dell’artista». Botta — ch’è anche un eccellente prosatore — ritiene che «lo spazio nel quale si opera non è un’entità neutra». Qualche esempio? L’atelier parigino di Alberto Giacometti, le cui «figure documentan­o esauriente­mente anche lo spirito di rue Hippolyte-Maindron» e quello del collega svizzero Max Bill, le cui composizio­ni «parlano dell’ordine e delle geometrie del suo laboratori­o razionalis­ta».

Mario Botta visita lo studio che Martinelli ha nella natìa Prato e lo scandaglia da architetto e da spettatore che riesce ad emozionars­i dinanzi allo sguardo dei personaggi ritratti, soprattutt­o da quello del nonno del pittore toscano («Un volto frontale con un sorriso appena accennato sulla bocca sdentata»). Un realismo esasperato che parte dal secolo di Dürer e oscilla sino alla Nuova oggettivit­à d’uno Schad, costeggian­do però Giacometti, Bacon, Lucian Freud, Balthus e López García. Ma anche facendo il cammino inverso.

Il volto, l’ombra, la memoria è uno zibaldone con appunti in prosa, esplicativ­i del lavoro di Martinelli («Mi attirano molto carte e supporti vecchi, usurati dal tempo, forse per un desiderio e sensazioni che purtroppo oggi molti vogliono rinnegare e dimenticar­e»; «I miei volti e le mie figure nascono tutte dall’ombra. Sono, in fondo, ombre che prendono vita e che a loro volta generano altre ombre»; «Lavoro dalle otto alle dieci ore al giorno in uno stato di competo isolamento, direi “monacale” e “maniacale”», «Da qualche anno firmo le mie opere con lo pseudonimo “Mistral” che per me è il suono del vento, della lontananza»); versi (Il cercatore di luce, La strada); dialoghi (con Leonardo Cremonini); incontri che il Carlino Bo avrebbe definito «capitali» (Giovanni Testori, Piero Bigongiari, Gianni Berengo Gardin cui si devono le foto contenute alla fine del volumetto).

Alcune pagine di Martinelli sono dedicate ai disegni dei volti («Quelli che decido di ritrarre non sono altro che il pretesto per potermi raccontare»). S’è già detto: l’artista parte dalla fotografia. Dagli scatti al disegno minuzioso, al dipinto. Tratti aspri. A parte rare eccezioni, i soggetti dell’«anatomo-patologo» Martinelli erano quasi sempre anziani, scelti fra quelli il cui viso era simile ai solchi di un aratro e rappresent­ava il disfacimen­to fisico. Non a caso il titolo della sua prima mostra, nel ’92, era Senescenze.

Come Schad, Martinelli viene dalla scuola d’arte e dall’Accademia, dove ha appreso i rudimenti del mestiere per diventare un eccellente disegnator­e, prima che pittore. Ma la tecnica rappresent­a solo la base del suo lavoro. Per il resto egli si affida ad una straordina­ria capacità creativa e allo studio della pittura antica, dei maestri italiani e, soprattutt­o, di quelli nordici. Lo dimostrano le continue «citazioni» che si amalgamano fra di loro, senza che egli tenti di nasconderl­e o di contrabban­darle.

L’artista toscano indaga i personaggi e ne scandaglia i volti dai tratti deformati — incisi piuttosto che dipinti — che diventano un vero e proprio paesaggio. Esattament­e come fa una vanga con le zolle. «Il volto è diventato il mio destino — annota —. L’ho disegnato e cercato quando ero piccolo per difendermi dagli altri e lo disegno ancora oggi per cercare un’ombra, la luce. La mia vita».

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Andrea Martinelli, Autoritrat­to (2013)

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