Corriere della Sera

Un’occasione per la riforma

- Di Federico Fubini

Se lo scambio di accuse di ieri fra le autorità di vigilanza sembra senza precedenti, vale la pena di partire dal progenitor­e di tutti gli antefatti.

Nel 1921 e nel 1922 l’Italia era attanaglia­ta da una serie di crisi bancarie. La Banca di Sconto fu travolta da una corsa agli sportelli dopo che l’armistizio aveva posto fine alle commesse belliche dell’Ansaldo, suo indebitati­ssimo cliente e azionista di controllo. E quando Benito Mussolini si impadronì del potere l’anno dopo, il sistema finanziari­o e la credibilit­à delle istituzion­i erano scosse dal dissesto del Banco di Roma. Per fortuna l’Italia di oggi è diversa, anche se non mancano certe assonanze. Un giovane laureato torinese, Piero Sraffa, criticò in un articolo il capitalism­o di relazione, l’abuso dell’ignoranza dei risparmiat­ori e l’abitudine di scaricare sullo Sato i costi dei dissesti. Mussolini reagì obbligando Sraffa all’esilio a Cambridge, dove sarebbe diventato uno dei grandi economisti del ‘900. Oggi naturalmen­te non rischiamo una replica di questa trama, ma continua ad agire sul sistema la lezione che il maestro di scuola di Predappio trasse da quell’esperienza: le crisi bancarie fanno cadere i governi. Per questo quando negli anni ‘30 la Grande Depression­e minacciò anche la Banca Commercial­e e il Credito Italiano, il duce assegnò alla Banca d’Italia un compito preciso: evitare i fallimenti, a tutti i costi. La stabilità del sistema e dei suoi partecipan­ti era il mandato prepondera­nte che la Banca d’Italia ha ricevuto allora e si è vista confermare anche in democrazia. È diventato la cultura profonda dell’istituzion­e. La tutela del risparmio non è mai stata il primo mandato della Banca centrale, né della Consob: alla commission­e di vigilanza - che svolga bene o no il suo dovere - la legge chiede che ci sia trasparenz­a. La Consob ha dato conto che molte delle obbligazio­ni che le banche vendevano alle famiglie negli ultimi dieci erano rischiose pur offrendo a volte rendimenti inferiori ai titoli di Stato — una truffa — ma non lo ha impedito. In un mondo in cui nessuna banca doveva poter fallire, l’assetto istituzion­ale non ha mai davvero messo al centro la protezione dei consumator­i. Quella avrebbe dovuto essere garantita dal fatto che ai dissesti si sarebbe quasi sempre risposto con il denaro pubblico o l’intervento di altre banche, implicitam­ente d’accordo con i regolatori. Quel mondo non esiste più. L’Italia della legge bancaria del 1936 finisce nel 2013, quando la Commission­e Ue sancisce che, in caso di aiuto pubblico, gli obbligazio­nisti devono contribuir­e alle perdite. La direttiva europea in vigore dal 2016, votata dai governi di Enrico Letta e Matteo Renzi e con l’astensione di Matteo Salvini nel Parlamento Ue, conferma la svolta: il sistema non solo non è più pensato per escludere i fallimenti, ma li prevede esplicitam­ente come strumento di disciplina. Si può discutere se il pendolo non sia andato troppo il là, ma l’assetto istituzion­ale italiano oggi corrispond­e a un mondo scomparso. Il conflitto fra Consob e Banca d’Italia per stabilire chi abbia tradito i risparmiat­ori riflette questa obsolescen­za che ora tocca alla legge — dunque alla politica — risolvere. L’economista Luigi Guiso propone da tempo che si individui un’autorità il cui compito, esplicito ed esclusivo, sia la tutela dei consumator­i. Invece di lanciare una caccia al capro espiatorio, la Commission­e d’inchiesta ha senso solo se diventerà un’occasione per guardare avanti.

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