Un’occasione per la riforma
Se lo scambio di accuse di ieri fra le autorità di vigilanza sembra senza precedenti, vale la pena di partire dal progenitore di tutti gli antefatti.
Nel 1921 e nel 1922 l’Italia era attanagliata da una serie di crisi bancarie. La Banca di Sconto fu travolta da una corsa agli sportelli dopo che l’armistizio aveva posto fine alle commesse belliche dell’Ansaldo, suo indebitatissimo cliente e azionista di controllo. E quando Benito Mussolini si impadronì del potere l’anno dopo, il sistema finanziario e la credibilità delle istituzioni erano scosse dal dissesto del Banco di Roma. Per fortuna l’Italia di oggi è diversa, anche se non mancano certe assonanze. Un giovane laureato torinese, Piero Sraffa, criticò in un articolo il capitalismo di relazione, l’abuso dell’ignoranza dei risparmiatori e l’abitudine di scaricare sullo Sato i costi dei dissesti. Mussolini reagì obbligando Sraffa all’esilio a Cambridge, dove sarebbe diventato uno dei grandi economisti del ‘900. Oggi naturalmente non rischiamo una replica di questa trama, ma continua ad agire sul sistema la lezione che il maestro di scuola di Predappio trasse da quell’esperienza: le crisi bancarie fanno cadere i governi. Per questo quando negli anni ‘30 la Grande Depressione minacciò anche la Banca Commerciale e il Credito Italiano, il duce assegnò alla Banca d’Italia un compito preciso: evitare i fallimenti, a tutti i costi. La stabilità del sistema e dei suoi partecipanti era il mandato preponderante che la Banca d’Italia ha ricevuto allora e si è vista confermare anche in democrazia. È diventato la cultura profonda dell’istituzione. La tutela del risparmio non è mai stata il primo mandato della Banca centrale, né della Consob: alla commissione di vigilanza - che svolga bene o no il suo dovere - la legge chiede che ci sia trasparenza. La Consob ha dato conto che molte delle obbligazioni che le banche vendevano alle famiglie negli ultimi dieci erano rischiose pur offrendo a volte rendimenti inferiori ai titoli di Stato — una truffa — ma non lo ha impedito. In un mondo in cui nessuna banca doveva poter fallire, l’assetto istituzionale non ha mai davvero messo al centro la protezione dei consumatori. Quella avrebbe dovuto essere garantita dal fatto che ai dissesti si sarebbe quasi sempre risposto con il denaro pubblico o l’intervento di altre banche, implicitamente d’accordo con i regolatori. Quel mondo non esiste più. L’Italia della legge bancaria del 1936 finisce nel 2013, quando la Commissione Ue sancisce che, in caso di aiuto pubblico, gli obbligazionisti devono contribuire alle perdite. La direttiva europea in vigore dal 2016, votata dai governi di Enrico Letta e Matteo Renzi e con l’astensione di Matteo Salvini nel Parlamento Ue, conferma la svolta: il sistema non solo non è più pensato per escludere i fallimenti, ma li prevede esplicitamente come strumento di disciplina. Si può discutere se il pendolo non sia andato troppo il là, ma l’assetto istituzionale italiano oggi corrisponde a un mondo scomparso. Il conflitto fra Consob e Banca d’Italia per stabilire chi abbia tradito i risparmiatori riflette questa obsolescenza che ora tocca alla legge — dunque alla politica — risolvere. L’economista Luigi Guiso propone da tempo che si individui un’autorità il cui compito, esplicito ed esclusivo, sia la tutela dei consumatori. Invece di lanciare una caccia al capro espiatorio, la Commissione d’inchiesta ha senso solo se diventerà un’occasione per guardare avanti.