«Qui siamo noi a comandare» Per i pm è il messaggio lanciato con violenza plateale e studiata
I magistrati: ostentazione per lucida scelta davanti a una telecamera
La ostentata brutalità con la quale Roberto Spada si è scagliato contro il giornalista che lo intervistava sul suo appoggio dichiarato a CasaPound ha la sua ragione di essere nel codice mafioso che il fratello del capoclan Carmine «Romoletto» voleva, e dal suo punto di vista doveva, rimarcare. Lo scrive la Procura nel decreto di fermo a carico del 42enne: «Può pacificamente affermarsi che l’aggressione era stata lucidamente studiata anche nelle modalità plateali, essendo stata deliberatamente posta in essere sotto gli occhi di decine di persone e davanti a una telecamera che riprendeva il tutto».
Rispetto alla testata sferrata al volto dell’interlocutore e ai successivi colpi di sfollagente non sarebbe stata la stessa cosa chiudersi una porta alle spalle o allontanare la troupe senza violenza. Ed è questo modo di agire, più del gesto in sé, che a Spada può costare il carcere assieme alla contestazione di reati che prevedono pene massime più alte (così da rientrare nella soglia dell’arresto preventivo): non lesioni gravi, dunque, punite fino a tre anni, ma violenza privata con uso di un’arma e minacce (fino a quattro). Il tutto con l’aggravante mafiosa «consistita nell’ostentare, in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e intimidazione propria delle organizzazioni mafiose».
Per dimostrarlo i pm della Dda capitolina Giovanni Musarò e Ilaria Calò — titolari delle indagini condotte del Nucleo investigativo e della compagnia di Ostia coordinate dall’aggiunto Michele Prestipino — riepilogano la parte non ripresa nel video, che include calci e pugni quando il cameraman era già a terra, gli insulti degli altri presenti e quel messaggio Svolta Roberto Spada, 43 anni, a Ostia viene accompagnato in caserma dai carabinieri (LaPresse) che racchiude tutto: «Non vi fate più vedere, avete visto che succede qui? Andatevene a fan... vi prendo la macchina e non la trovate più». Minacce urlate dal complice di Spada (in corso di identificazione) — «una sorta di guardaspalle che dava l’impressione di essere il responsabile della tutela di Roberto Spada», lo definiscono Edoardo Anselmi e Daniele Piervincenzi nella loro denuncia — e dagli altri presenti.
E questo dopo che la conversazione sembrava cordiale, tanto che il 42enne aveva invitato l’intervistatore a visitare la sua palestra. Avrebbe potuto aggredirlo all’interno, ragionano i pm ma qui non li avrebbe visti nessuno. «I fatti sono avvenuti proprio nella zona sottoposta al dominio degli Spada (davanti alla Femus boxe gestita da Roberto, nel quartiere fortino Nuova Ostia,
ndr)», scrivono i magistrati, che ricostruiscono il contesto criminale della città citando dal 2007 al marzo scorso una (parziale) lista di 49 estorsioni, intimidazioni, delitti, incendi a scopo di racket che portano la firma dell’alleanza egemone guidata dai Fasciani con gli alleati Spada e Triassi in secondo piano.
L’ascesa degli Spada è legata agli arresti e alle sentenze che hanno di fatto neutralizzato don Carmine Fasciani a partire dal 2014 (la Cassazione ha recentemente sancito il carattere mafioso del sodalizio). Sono emersi i loro legami con la Pubblica amministrazione del municipio di Ostia, tra cui il capo dell’ufficio tecnico, Aldo Papalini, che si serviva della loro intimidazione per «espropriare» e riassegnare a imprenditori e amici, tra cui gli stessi Spada, gli stabilimenti balneari. Un’altra inchiesta della Dda, nata dalle dichiarazioni di un pentito — mosca bianca a Ostia — ha ricostruito le aggressioni ai rivali Baficchio, ai quali fu anche tolto di forza un alloggio. Il messaggio mafioso passò anche da una gambizzazione in pieno giorno per dire «qui comandiamo noi». Lo stesso fine della testata.
Il fermo di Roberto Spada, più volte citato in queste vicende ma mai a processo finora, viene motivato anche con il pericolo di fuga: un’ora dopo l’esplosione del caso risultava irreperibile.