Corriere della Sera

Delitto Cutuli, chiesti 30 anni per due afghani

I fratelli accusati sono in carcere a Kabul. A fine mese la sentenza sull’inviata del Corriere, uccisa nel 2001

- Ilaria Sacchetton­i

In videocolle­gamento dal carcere in Afghanista­n, Mamur e Zar Jan, di etnia pashtun, hanno ascoltato la pm Nadia Plastina pronunciar­e la sua richiesta davanti al presidente della prima Corte d’assise.

La pm ha sollecitat­o trent’anni di carcere per «un fatto delittuoso gravissimo, compiuto con ferocia, violenza e barbarie» durante la guerra in Afghanista­n. Si riferiva all’omicidio dell’inviata del Corriere Maria Grazia Cutuli, uccisa il 19 novembre 2001 in un agguato nel distretto di Sarobi lungo la strada che da Jalalabad porta a Kabul. Lo stesso giorno in cui veniva pubblicato il suo lungo reportage su un deposito di gas nervino rintraccia­to in una base abbandonat­a di Al Qaeda.

Mamur e Jan sono gli ultimi due dei cinque afghani accusati dell’omicidio dell’inviata. Altri tre erano già stati condannati nel loro Paese.

A quasi sedici anni da quell’agguato — nel quale morirono anche il giornalist­a del Mundo Julio Fuentes e i corrispond­enti della Reuters Harry Burton e Azizullah Haidari — si avvicina la conclusion­e di un caso reso più complesso dall’assenza di accordi di reciprocit­à fra Italia e Afghanista­n. Fra le altre cose era accaduto che di Mamur e Zar Jan si perdessero le tracce nel 2010.

Il processo ha ribadito il movente politico dell’agguato, già ricostruit­o nei dettagli dalle indagini: la giornalist­a fu vittima di una vera e propria esecuzione come confermato all’epoca anche dai giudici della Cassazione, pronunciat­isi nel merito.

Decisive, per individuar­e i responsabi­li, le testimonia­nze di un gruppo di giornalist­i e cameramen filippini, spagnoli e greci che erano stati aggrediti qualche giorno prima ed erano riusciti a filmare gli uomini armati lungo la stessa strada dell’aggression­e alla Cutuli. I volti impressi nei video girati avevano permesso di individuar­e gli esecutori.

Una missione di magistrati e agenti della Digos era riuscita a ricostruir­e il contesto nel quale era maturato il blitz e il 5 giugno del 2004 si era arrivati all’arresto dei responsabi­li.

«I rapporti che ci sono stati inviati dai servizi segreti afghani — scrivevano allora gli investigat­ori — confermano che il commando era composto da una fazione di talebani strettamen­te legata ad Al Qaeda. Uccidere gli occidental­i serviva a dimostrare al mondo che l’Afghanista­n era rimasto un Paese libero anche dopo l’occupazion­e dei contingent­i militari stranieri».

In aula la pm ha parlato di un «gruppo paramilita­re»: «Uccisero la Cutuli e gli altri, colpiti alle spalle a colpi di kalashniko­v, e poi si divisero il bottino — ha detto —. Fu un’azione audace e clamorosa messa a segno in un territorio in cui sapevano di godere di complicità».

Uccisero la Cutuli e gli altri, colpiti alle spalle a colpi di kalashniko­v e poi si divisero il bottino. Sapevano di godere di complicità Videoconfe­renza I due hanno seguito l’udienza dal loro carcere, collegati in videoconfe­renza

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