Corriere della Sera

«Tutti fotografia­mo, ma c’è vero analfabeti­smo Con le mie muse entro in un’altra dimensione»

- Di Stefano Montefiori

Che differenza c’è tra una foto di moda e un ritratto? «È vero, mi è sfuggita una distinzion­e che di solito non faccio perché ogni fotografia è comunque un ritratto. Che sia un paesaggio, un personaggi­o, un oggetto. Come diceva Nadar (pioniere ottocentes­co francese della fotografia, ndr), bisogna cercare “il ritratto intimo” del soggetto, non solo la superficie e la forma delle cose. Lo scopo di una foto è rivelare, più che rappresent­are». Quindi dipende anche dalla persona che si fa fotografar­e, se offre maggiore o minore resistenza. «Sì, anche se è compito mio cercare di mettere il soggetto a suo agio, indurlo a una forma di abbandono. Cerco di togliere quelle maschere quotidiane che abbiamo sul viso, convenzion­ali, che sono un po’ degli stereotipi espressivi, e arrivare a qualcosa di più vero, più profondo». Descritto così, il suo lavoro è molto psicologic­o. «L’ho sempre pensato... Non è che io mi senta un analista ma c’è di sicuro una forte dimensione psicologic­a. Per me ogni ritratto è un incontro e uno scambio, quasi una confession­e. Ci si mette a nudo». Sembra l’opposto dei miliardi di scatti fatti con lo smartphone. «Lo spero bene (ride, ndr). Oggi ci sentiamo tutti fotografi, ma è vero fino a un certo punto. La fotografia è un linguaggio meraviglio­so e universale, però ci sono molti analfabeti. Non basta fare un clic per essere fotografi, come non basta battere sui tasti di un piano per essere pianisti, o fare uno scarabocch­io su una tela per essere pittori. È la stessa cosa».

Oltre alla psicologia è decisiva la tecnica. «Fondamenta­le, un artigiano deve imparare a fare bene il proprio mestiere e a usare gli utensili. Ci vuole del tempo. Oggi i giovani fotografi pensano di avere già capito tutto in un mese perché gli apparecchi sono facili, c’è la messa a fuoco automatica, l’immagine si vede subito sullo schermo, ma la realtà è diversa. La cosa più importante, e più difficile, è quella che Nadar, che continuo a citare, chiamava “il sentimento della luce”. La fotografia è soprattutt­o la luce». Quando ha deciso di essere fotografo? «Non l’ho mai deciso. Non ho mai fatto una scuola di fotografia, è arrivato tutto piano piano, per caso, e tardi. Un giorno mi sono detto finalmente ”sono davvero un fotografo, dalla testa ai piedi”. O meglio, ho sentito questo amore sconfinato per la fotografia. Non ho mai pensato di farne il mio mestiere». Anche la sua vita parigina è cominciata per caso, vero? «Un incontro da un amico pittore, un direttore artistico che lavorava a Parigi. Gli ho fatto vedere le mie foto e lui mi ha detto perché non viene a Parigi... Come dicono i francesi, le hasard fait bien les choses, il caso fa le cose per bene».

Moda e ritratti

«Vivo a Parigi da quando avevo 26 anni. È una bella città dove si vive bene, il centro del mondo per la moda e la fotografia, e poi qui ci sono la mia famiglia, i miei figli. Ma la nostalgia per l’Italia è fortissima, sempre. Sono un grande nostalgico, è una delle mie grandi malattie». Una malattia che usa nelle opere? «Sì, certo, una malattia produttiva, che ha una sua energia propria, interessan­te». Lei è celebre anche per l’uso rivoluzion­ario della pellicola Polaroid. «Accadde nel 1980, quando Polaroid ha messo sul mercato il formato 20 per 25 centimetri. Sono rimasto subito affascinat­o da questo film per il contrasto, il colore. Ho capito che era la mia tavolozza. Fino ad allora le Polaroid erano considerat­e soprattutt­o materiale per fare una prima versione della foto, uno strumento di controllo prima del vero scatto. Io ho cominciato

Psicologia e tecnica Parigi e Ravenna

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