«Tutti fotografiamo, ma c’è vero analfabetismo Con le mie muse entro in un’altra dimensione»
Che differenza c’è tra una foto di moda e un ritratto? «È vero, mi è sfuggita una distinzione che di solito non faccio perché ogni fotografia è comunque un ritratto. Che sia un paesaggio, un personaggio, un oggetto. Come diceva Nadar (pioniere ottocentesco francese della fotografia, ndr), bisogna cercare “il ritratto intimo” del soggetto, non solo la superficie e la forma delle cose. Lo scopo di una foto è rivelare, più che rappresentare». Quindi dipende anche dalla persona che si fa fotografare, se offre maggiore o minore resistenza. «Sì, anche se è compito mio cercare di mettere il soggetto a suo agio, indurlo a una forma di abbandono. Cerco di togliere quelle maschere quotidiane che abbiamo sul viso, convenzionali, che sono un po’ degli stereotipi espressivi, e arrivare a qualcosa di più vero, più profondo». Descritto così, il suo lavoro è molto psicologico. «L’ho sempre pensato... Non è che io mi senta un analista ma c’è di sicuro una forte dimensione psicologica. Per me ogni ritratto è un incontro e uno scambio, quasi una confessione. Ci si mette a nudo». Sembra l’opposto dei miliardi di scatti fatti con lo smartphone. «Lo spero bene (ride, ndr). Oggi ci sentiamo tutti fotografi, ma è vero fino a un certo punto. La fotografia è un linguaggio meraviglioso e universale, però ci sono molti analfabeti. Non basta fare un clic per essere fotografi, come non basta battere sui tasti di un piano per essere pianisti, o fare uno scarabocchio su una tela per essere pittori. È la stessa cosa».
Oltre alla psicologia è decisiva la tecnica. «Fondamentale, un artigiano deve imparare a fare bene il proprio mestiere e a usare gli utensili. Ci vuole del tempo. Oggi i giovani fotografi pensano di avere già capito tutto in un mese perché gli apparecchi sono facili, c’è la messa a fuoco automatica, l’immagine si vede subito sullo schermo, ma la realtà è diversa. La cosa più importante, e più difficile, è quella che Nadar, che continuo a citare, chiamava “il sentimento della luce”. La fotografia è soprattutto la luce». Quando ha deciso di essere fotografo? «Non l’ho mai deciso. Non ho mai fatto una scuola di fotografia, è arrivato tutto piano piano, per caso, e tardi. Un giorno mi sono detto finalmente ”sono davvero un fotografo, dalla testa ai piedi”. O meglio, ho sentito questo amore sconfinato per la fotografia. Non ho mai pensato di farne il mio mestiere». Anche la sua vita parigina è cominciata per caso, vero? «Un incontro da un amico pittore, un direttore artistico che lavorava a Parigi. Gli ho fatto vedere le mie foto e lui mi ha detto perché non viene a Parigi... Come dicono i francesi, le hasard fait bien les choses, il caso fa le cose per bene».
Moda e ritratti
«Vivo a Parigi da quando avevo 26 anni. È una bella città dove si vive bene, il centro del mondo per la moda e la fotografia, e poi qui ci sono la mia famiglia, i miei figli. Ma la nostalgia per l’Italia è fortissima, sempre. Sono un grande nostalgico, è una delle mie grandi malattie». Una malattia che usa nelle opere? «Sì, certo, una malattia produttiva, che ha una sua energia propria, interessante». Lei è celebre anche per l’uso rivoluzionario della pellicola Polaroid. «Accadde nel 1980, quando Polaroid ha messo sul mercato il formato 20 per 25 centimetri. Sono rimasto subito affascinato da questo film per il contrasto, il colore. Ho capito che era la mia tavolozza. Fino ad allora le Polaroid erano considerate soprattutto materiale per fare una prima versione della foto, uno strumento di controllo prima del vero scatto. Io ho cominciato
Psicologia e tecnica Parigi e Ravenna