Gli acrobati dei limoni «sfusati»
Un gruppo di contadini di Amalfi coltiva questo frutto dalla buccia dolce Luigi Aceto: «A 83 anni continuo a saltare da un terrazzamento all’altro»
l campanile arabeggiante spunta tra le foglie. Ad Amalfi i limoni si coltivano su terrazzamenti coperti da soffitti di rami frondosi, verdi tutto l’anno. E il limoneto più antico, ricavato ai piedi della torre dello Ziro, appartiene alla famiglia di Luigi Aceto, 83 anni, qui noto come don Gigino: «I limoni sono il mio lavoro dai tempi delle elementari — racconta l’anziano coltivatore —. Neppure andavo a scuola per ripulire, potare, raccogliere. E ho fatto sempre questo, fino adesso». Un lavoro di forza e agilità, perché in larga parte i giardini amalfitani sono raggiungibili solo a piedi. Le cassette cariche di limoni gialli, pesanti oltre mezzo quintale, si portano a spalle su sentieri ripidi, scalando i pergolati, facendosi trasportare su carrucole e teleferiche.
Una coltivazione «acrobatica» di cui don Gigino è il più anziano degli interpreti. Sebbene l’azienda ora guidata dal figlio Salvatore conti diversi dipendenti, lui continua a saltare da un terrazzamento all’altro. Si aggrappa all’impalcatura di castagno e sbuca dall’altra parte della tettoia, sul gradone più alto: «Il limone richiede il lavoro di un anno, siamo sempre vicini alle nostre piante: potatura, Coltivatore legatura, copertura, scopertura, concimazione, innaffiamento, trattamenti biologici. Dopo un po’ di tempo ti abitui e e non ci fai più nemmeno caso». Anche a 80 anni passati.
Il limone sfusato, detto anche Costa di Amalfi Igp, è un cultivar unico nel suo genere. Si produce in 14 comuni della Costiera, per un totale di 400 ettari che rendono ottomila tonnellate all’anno. Ha una forma irregolare e pesa in media più di cento grammi. Se ne ricava una piccola ma ricercatissima produzione cosmetica e dolciaria, molto pubblicizzata nei viottoli degli splendidi borghi incastonati nella roccia, a due passi dal mare. Ma è anche un ingrediente per i menù di alberghi e ristoranti, un simbolo del territorio: «Dello sfusato amalfitano si usa il cento per cento», spiega Mimmo Di Raffaele, chef dell’hotel Caruso di Ravello. «La buccia è pregiatissima, per via dei suoi oli essenziali. La si usa per il limoncello. Ma la parte che io preferisco è forse quella meno conosciuta: il pane di limone». Il nome tecnico è «albedo», la pasta bianca tra polpa e scorza. In quasi tutte le varietà è amara, ma non nello sfusato amalfitano: «Nella gastronomia popolare è un alimento molto diffuso. Io lo preparo all’insalata. In sala servo una versione più elaborata. Ma è molto buona anche nel modo più semplice, un filo d’olio e una spolverata di pepe».
Dei limoni amalfitani ha scritto anche il New York Times. Da allora l’azienda Aceto è meta di schiere di visitatori. Sbarcano dalle navi da crociera per un lemon tour con don Gigino. Che, se è di buon umore, affetta un limone grande quanto un melone e mostra a tutti quanto è buono mangiato a morsi.