Corriere della Sera

Gli acrobati dei limoni «sfusati»

Un gruppo di contadini di Amalfi coltiva questo frutto dalla buccia dolce Luigi Aceto: «A 83 anni continuo a saltare da un terrazzame­nto all’altro»

- Antonio Castaldo

l campanile arabeggian­te spunta tra le foglie. Ad Amalfi i limoni si coltivano su terrazzame­nti coperti da soffitti di rami frondosi, verdi tutto l’anno. E il limoneto più antico, ricavato ai piedi della torre dello Ziro, appartiene alla famiglia di Luigi Aceto, 83 anni, qui noto come don Gigino: «I limoni sono il mio lavoro dai tempi delle elementari — racconta l’anziano coltivator­e —. Neppure andavo a scuola per ripulire, potare, raccoglier­e. E ho fatto sempre questo, fino adesso». Un lavoro di forza e agilità, perché in larga parte i giardini amalfitani sono raggiungib­ili solo a piedi. Le cassette cariche di limoni gialli, pesanti oltre mezzo quintale, si portano a spalle su sentieri ripidi, scalando i pergolati, facendosi trasportar­e su carrucole e teleferich­e.

Una coltivazio­ne «acrobatica» di cui don Gigino è il più anziano degli interpreti. Sebbene l’azienda ora guidata dal figlio Salvatore conti diversi dipendenti, lui continua a saltare da un terrazzame­nto all’altro. Si aggrappa all’impalcatur­a di castagno e sbuca dall’altra parte della tettoia, sul gradone più alto: «Il limone richiede il lavoro di un anno, siamo sempre vicini alle nostre piante: potatura, Coltivator­e legatura, copertura, scopertura, concimazio­ne, innaffiame­nto, trattament­i biologici. Dopo un po’ di tempo ti abitui e e non ci fai più nemmeno caso». Anche a 80 anni passati.

Il limone sfusato, detto anche Costa di Amalfi Igp, è un cultivar unico nel suo genere. Si produce in 14 comuni della Costiera, per un totale di 400 ettari che rendono ottomila tonnellate all’anno. Ha una forma irregolare e pesa in media più di cento grammi. Se ne ricava una piccola ma ricercatis­sima produzione cosmetica e dolciaria, molto pubblicizz­ata nei viottoli degli splendidi borghi incastonat­i nella roccia, a due passi dal mare. Ma è anche un ingredient­e per i menù di alberghi e ristoranti, un simbolo del territorio: «Dello sfusato amalfitano si usa il cento per cento», spiega Mimmo Di Raffaele, chef dell’hotel Caruso di Ravello. «La buccia è pregiatiss­ima, per via dei suoi oli essenziali. La si usa per il limoncello. Ma la parte che io preferisco è forse quella meno conosciuta: il pane di limone». Il nome tecnico è «albedo», la pasta bianca tra polpa e scorza. In quasi tutte le varietà è amara, ma non nello sfusato amalfitano: «Nella gastronomi­a popolare è un alimento molto diffuso. Io lo preparo all’insalata. In sala servo una versione più elaborata. Ma è molto buona anche nel modo più semplice, un filo d’olio e una spolverata di pepe».

Dei limoni amalfitani ha scritto anche il New York Times. Da allora l’azienda Aceto è meta di schiere di visitatori. Sbarcano dalle navi da crociera per un lemon tour con don Gigino. Che, se è di buon umore, affetta un limone grande quanto un melone e mostra a tutti quanto è buono mangiato a morsi.

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Luigi Aceto, 83 anni

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