Quel miracolo dopo la disfatta di Caporetto
Il sacrificio dei nostri soldati e dei ragazzi del ‘99 che fermarono gli austriaci Un secolo dopo anche sul Grappa vessilli veneti invece dei tricolori
Non è vero che siamo stati salvati dai francesi e dagli inglesi. Furono i reduci del Carso i primi a resistere sul Piave. E furono i ragazzi del ’99, gettati nella mischia appena scesi dai treni, a tamponare la falla che si era aperta qui, al Molino della Sega, dove gli austriaci avevano passato il fiume e vennero fermati con un assalto risorgimentale all’arma bianca. La prima vittoria dopo Caporetto. La battaglia d’arresto che salvò l’Italia. Oggi però sul Piave non sventola il tricolore, ma il leone di San Marco.
Le bandiere della Serenissima sono ovunque: sui balconi delle case, fuori dai bar, sui capannoni svuotati dalla crisi, nei vigneti di prosecco. Il leone è un simbolo secolare dell’identità italiana ed europea, ma qui simboleggia l’autonomia del Veneto rivendicata dal referendum, talora l’aspirazione all’indipendenza. Quando i ragazzi del ’99 la attraversarono per andare al fronte era tra le regioni più povere d’Italia, oggi è la più ricca; e i separatisti sono sempre i ricchi, i poveri restano attaccati alla mammella dello Stato, che i loro antenati difesero un secolo fa. Veneti e calabresi, lombardi e sardi non si capivano, parlavano dialetti troppo diversi, ma erano uniti dalla miseria e dalla dignità contadine. Ora molte cose sono cambiate, anche il clima: sul Piave un vivaio ha messo a dimore ulivi e palme.
Miracolo sul fiume
Cent’anni fa, in questi stessi giorni, gli abitanti della zona videro arrivare 250 mila profughi friulani: stanchi, avviliti, terrorizzati. La loro terra era in fiamme. Gli italiani in ritirata avevano bruciato tutto, per non lasciare nulla agli invasori. Gli austriaci completarono la devastazione. Il prezzo della guerra fu pagato, come sempre, dalle donne. Anche da Fagaré, Breda, Nervesa ci si prepara a fuggire. Ma poi si vedono arrivare le avanguardie dell’«invitta» Terza Armata. Hanno ripiegato per oltre cento chilometri, incalzate dal nemico, senza disperdersi, e ora sono pronte a combattere.
Dal 9 novembre c’è un nuovo capo di Stato maggiore. Gli alleati hanno avuto la testa di Cadorna, di cui non si fidano più. Il successore è un napoletano: Armando Diaz. L’ordine è tenere il Piave, dal Grappa al mare, ma si teme di dover arretrare ancora. Il governo è nel panico: l’Italia si è liberata dal dominio austriaco solo da due generazioni, e ora il nemico secolare è alle porte di Venezia, vede la pianura padana, pregusta Milano e la resa di un vassallo umiliato. Gli austriaci passano il Piave nella notte tra l’11 e il 12 novembre. Piove da giorni, il fiume è in piena, ma riescono a gettare un ponte di barche, prendono Zenson. La prima brigata a entrare in linea è la Pinerolo, che si scontra corpo a corpo con le avanguardie nemiche, le ferma con i lanciafiamme e le baionette, mentre la 47° batteria di artiglieria da montagna batte la riva, massacrando amici e nemici.
Piangere e cantare
Il 16 novembre alle 5 del mattino è ancora buio, ma Fagaré è illuminata a giorno dalle granate, che sollevano nubi di ghiaia. Il 92° reggimento boemo sbuca dalla nebbia e investe il reggimento Novara, la difesa vacilla, scendono in campo i bersaglieri del 18°. Il capitano Francesco Rolando è ferito da una mitragliatrice, si fa medicare, torna alla testa dei suoi uomini, è colpito ancora, avrà la medaglia d’oro. È allora che il maggiore Guido Caporali, comandante dei due battaglioni delle reclute, riceve l’ordine di portarsi in prima linea.
Alcuni soldati non hanno ancora compiuto diciotto anni. Sono arrivati in treno il giorno prima, terrorizzati dall’eco sorda del cannone e dall’odore di morte. Eppure non sbandano. Annoterà Diaz o il suo ufficio stampa, con una punta di retorica: «Li ho visti i Ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora». Nelle osterie della zona raccontano che fino a vent’anni fa i reduci venivano qui a ritrovarsi. Alla fine del pranzo univano i tavoli, disponevano le panche a quadrato, si prendevano sottobraccio e intonavano i canti di guerra: Tapum, il testamento del capitano, e ovviamente la canzone del Piave. Cantavano e piangevano. Ai nipoti incuriositi dal rito rispondevano che parlare della guerra era inutile. Chi sa, non ama ricordare. Chi non sa, non può capire. «Facciamo le sole cose che potevamo fare in trincea: cantare e piangere».
Ci sono ancora le trincee, a Fagaré, allagate dalla pioggia di questi giorni. Il Piave più che mormorare impreca, scorrendo impetuoso. Un cartello segnala il divieto di balneazione: qualche residente si è lamentato perché d’estate vengono i romeni a nuotare. Fagaré è frazione di San Biagio di Callalta, il paese di Giorgio Panto: re degli infissi da giardino, sponsor di Colpo grosso, fondatore di un partito venetista che nel 2006 sottrasse a Berlusconi 92 mila fatali voti, morto in elicottero sulla laguna di Venezia su un’isola di sua proprietà. Nel sacrario ci sono 5.191 soldati conosciuti e 5.350 ignoti. Charbonnier è sepolto accanto a Cicilli, Crapiz vicino a Coppola. Non c’è il tricolore, neanche qui. Il 4 novembre sono arrivati 81 visitatori, ma già il 6 non è venuto nessuno. È custodito il frammento di muro su cui la propaganda scrisse: «Tutti eroi! Il Piave o tutti accoppati!». Il Comune vicino, Breda, organizza il 17 novembre una ricostruzione della battaglia, titolo «Voliamo la pace!» , come da iscrizione ritrovata in trincea. Ma i fanti avevano ben chiaro che prima di fare la pace bisognava resistere.
Tre alpini ignoti sul Grappa
Sul Grappa cominciò a nevicare tra l’11 e il 12 novembre. Gli austriaci attaccano la notte successiva. Ci sono anche i tedeschi. È la battaglia cruciale. Il Grappa è un castello alto 1.650 metri a picco sulla pianura veneta: se cade, non ci sono ostacoli sino a Bologna o a Torino. I nostri cedono il Monte Santo, il Roncone, il Cismon. Gli alpini di Feltre salgono sul Tomatico riforniti di castagne e rosari dalle mogli: difendono le loro case; invano, la cima è presa, il paese invaso. Eppure il comandante nemico Von Bulow annota che il soldato italiano pare irriconoscibile: ora applica in modo spon-
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