Il film su Marcelo Burlon lo stilista sciamano
Il personaggio «A 14 anni sono arrivato in Italia, a Porto Potenza ma non ci torno mai: lì con mia madre pulivo le stanze d’hotel. La mia terra è la Patagonia. Milano? Ha cominciato a rifiorire, c’è bisogno di unità». Storia di un ragazzo che ce l’ha fatt
Marcelo che balla in leggings e top crop, a 16 anni, con i capelli biondi. Marcelo che si tuffa, nudo, nel suo lago in Patagonia. Marcelo che abbraccia la gente di Napoli. Marcelo che compone con i più grandi «fratelli» del rap. Marcelo che sceglie i tattoo per le sue t-shirt. Marcelo che assiste l’amica sciamana in un rituale di purificazione. Marcelo re dei club. Marcelo che sgrana gli occhi carbone quando lo premiano come uno dei più influenti personaggi della moda. Marcelo che al termine della sfilata dice: «Ragazzi pochi c .... i, io la passerella la faccio sino alla fine perché voglio vedere tutti negli occhi».
La vita di Marcelo Burlon, 41 anni, oggi direttore creativo di County of Milan, ieri pr delle notti milanesi e delle feste più cool, scorre veloce, un frame dopo l’altro, e racconta di un ragazzo che ce l’ha fatta, malgrado tutto e tutti. E oggi la sua moda streetwear, tribale e metropolitana, veste un universo mondo. «E pensare che io che ero l’uomo delle feste, per il mio sogno invece, ero sempre un uninvited, un non invitato, non accettato. Così ho costruito la mia azienda. E ho vinto, non sugli altri ma su me stesso. Il sistema non mi capiva, ma i giovani si». Dice ora sorridendo, con il cuore e senza sforzo. Oggi come vent’anni fa. La stessa anima. La stessa empatia: «Quello che ho lo divido con gli amici, con la mia famiglia. E se mi posso permettere un aereo privato, porto con me tutti. Condividere è la cosa più importante. E vivere soprattutto. Perché siamo qui una volta sola. Sei ore di lavoro e puoi dare il massimo».
E «Uninvited» è il titolo del docu-film in uscita il 28 novembre. Madre libanese, padre veneto, nato in Patagonia, Marcelo arriva con la famiglia a Porto Potenza, Marche, a 14 anni.
«Non torno mai lì. Non mi fa piacere. Mi ricorda quando mi prendevano in giro per i miei capelli colorati e la mia omosessualità; quando mi svegliavo alle 4 per andare in fabbrica o per aiutare mia madre a pulire le stanze negli alberghi. Ho la terza media ma quando mi chiamano in Bocconi a tenere le lezioni di marketing e comunicazione sulla mia azienda (una holding, la New Guards Group, con i soci Davide De Giglio e Claudio Antonioli proprietaria di altri marchi “metropolitani” di grande successo e più di 150 dipendenti in cinque anni ndr) dico ai giovani di studiare».
La parola Millennials?
«Mi fa paura. Conoscono il contemporaneo ma non guardano indietro. Vivono l’istante ma solo il sapere porta alla conoscenza che è futuro».
La moda, la musica, gli eventi, le collaborazioni: da Reebok a Kappa e persino Moët & Chandon, lo champagne. Mai stanco?
«Sparisco e vado in Patagonia dove sto costruendo la mia casa e dove c’è uno spazio olistico dove verranno tutti quelli che vogliono connettersi con se stessi, ma
questo fra un po’ di anni». Spiritualità e moda sembrano così lontani.
«In Patagonia prendo l’energia e la porto nella giungla urbana. Cercando di raccontare un’altra faccia, per esempio di Milano. Che non è solo la verità della moda strutturata, dalla vecchia guardia. Noi abbiamo rotto le regole. So di non essere mai stato accettato. Arrivavo dai club, dalla notte, da Riccione, dagli anni 90. Sono stato anni alla porta dei Magazzini Generali, dove arrivavano gli stilisti. Poi ho cominciato a ● lavorare per loro. Organizzavo feste e univo mondi lontani: drug queen e graffitari, borghesia e modaioli. Mi occupavo di mailing list. Poi ho cominciato a suonare come dj e ho scoperto la forza dei social, 15 anni fa, e ho costruito una rete internazionale di gente che voleva far parte della serata e della mia estetica e da lì ho pensato al mio marchio. Instagram, My Space... non li conosceva nessuno allora. Ero un pioniere». Social mezzo innovativo o anti sistema?
«Avevo solo capito la forza di arrivare ovunque: un linguaggio internazionale. I grandi marchi sono arrivati e mi guardavano con scetticismo: “Cosa stai facendo” mi dicevano? E io rispondevo: “Porto un nuovo mondo, una nuova energia”. Non mi capivano, e piangevo».
Già, chi poteva credere che un pr potesse creare moda partendo da una (democratica) t-shirt con le ali e i serpenti?
«Io sono parte di un mondo, quello delle subculture dal quale tutti assorbivano ma nessuno ha mai reso protagonista. Sono un direttore creativo, termine più contemporaneo. Metto su una collezione certo, ma poi creo una festa, una performance. Ci sono cantanti, moto acrobatiche, cascate d’acqua. Le collezioni sono sfumature di un mondo che rappresenta una nuova generazione di creativi». La giornata di Marcelo Burlon.
«Mi sveglio alle 8, faccio yoga e poi vado in ufficio (uno splendido palazzo del ’700 in via Manin, a Milano, affrescato ndr) e alle 18 palestra. Non fumo, non bevo e non mi drogo. Ho provato tutto e mi è bastato. Un’esperienza importante che non consiglio. E sono sempre pronto a raccontarla, perché è giusto. Posso farmi sei ore di dj set senza toccare nulla. Mi connetto attraverso la musica e mi basta». Chi inviterebbe a una festa della moda?
«Tutti gli stilisti italiani perché si parlino, finalmente. Troppa paura del nuovo e del diverso. È il momento: Milano ha iniziato a fiorire c’è bisogno di unione, troppi egocentrismi e competitività».