Corriere della Sera

Il 7 in greco di Teo, ragazzo «inceppato»

«Ho studiato come un pazzo, ma non troverò le parole, andrà male come al solito». E invece, questa volta, l’epilogo è diverso. Storia di un figlio dislessico e del suo viaggio, insieme alla famiglia

- di Francesca Magni

È assurdo | dice la ragione È vano | dice il giudizio

Torni dal lavoro e ti chiudi la porta alle spalle, sfili le scarpe e le fai scivolare lungo la rampa che va al piano di sotto. È tardi, devi correre a preparare la cena. Ragazzi, come va?, urli all’imboccatur­a della scala che sale alle loro stanze. Bene, risponde Ludovica, la voce attutita dalla porta chiusa. Teo non risponde. Dalla sua camera arriva il suono dei pugni contro un sacco. Era alle medie quando gli avete regalato il punching ball, è stato prima o dopo la scoperta?, ti chiedi e non ricordi. Aveva bisogno di sfogare una rabbia che non capivate. Volevate che smettesse di attaccare la sorella, di rompere le cose di scuola, le matite, i righelli, il diario infilzato con il compasso, scarabocch­iato a morte.

Sali le scale e ti affacci alle camere, Ludovica digita su una chat; nella stanza di Teo l’aria è carica, sudore e angoscia. Lo chiami ma non sente, gli tocchi una spalla e lui si ferma non prima di averti colpita con il rinculo dell’ultimo pugno. Scusa mami, dice voltandosi. Quante volte ti ha urtata, sportivo eppure goffo, come se non sapesse dove finisce lui e dove iniziano gli altri. Lo abbracci, si china e ti lascia fare, i guantoni fermi nell’aria, si abbandona al conforto come un sopravviss­uto che non ha più vergogna. I tratti dolci del suo viso di 15enne sono segnati da un’angoscia con cui ha imparato a convivere.

Domani ho la verifica di greco, sussurra. Ho studiato come un pazzo. Lo so, rispondi accennando alla scrivania: un fiume di detriti, carte, vestiti, fogli di brutta travolti da un’alluvione di paura. Non riuscirò a finire, non troverò le parole. Andrà male come al solito.

Il mattino dopo siete tu e tuo marito a colazione sul tavolo ovale. Fino a poco tempo fa ne avevate uno identico, con una sola gamba al centro, ma rotondo. Poi l’avete sostituito con questo più grande: è successo dopo la scoperta. È sul tavolo da pranzo che si è consumata la vostra storia. Le cene a sgridare Teo per i risultati scadenti, «non studi abbastanza» urlavate; le mattine con la tazza del latte che si raffreddav­a e Teo che non usciva dal letto, la testa dentro la federa del cuscino, «sono malato», diceva, «non è vero, alzati». E poi acqua calda e limone da bere su quel tavolo, dopo che uno di voi l’aveva riportato a casa a metà delle lezioni perché si era sentito male.

Seconda media. Un bambino sveglio e pieno di interessi che all’improvviso si era inceppato. Come è possibile che detesti imparare, lui che a sei anni ascoltava il papà raccontare dei partigiani, dei satelliti di Giove, di Caravaggio, lui che ripeteva interi audiolibri senza sbagliare una virgola?

Poi una psicologa ha capito: è dislessico, i test l’hanno confermato. Non odia imparare: solo non riesce a farlo con il metodo imposto dalla scuola. Quel maledetto leggi-e-ripeti che trasforma ogni cosa in filastrocc­he da stipare nel magazzino della mente: un luogo che Teo alimenta per vie diverse, emotive, tattili, cinetiche, logiche. Un luogo che trattiene facilmente le storie ma con fatica improba le nozioni, i lessici, i nomi etichetta. Era tutto lì. Ma perché non conoscevam­o la dislessia? Perché non la conoscono tutti?

Stamattina l’hai svegliato con calma, gli hai scaldato la tazza di latte che lui ha riempito di cereali e svuotato con il verso di piacere di un neonato, il cappuccio della felpa calcato in testa. L’hai salutato sulla porta, «in bocca al lupo per greco — gli hai detto — immagina di essere a una gara a tirare con uno molto più forte: giocatela come quando non hai niente da perdere». Lui ha scosso la testa senza replicare e si è buttato in strada come incontro a un destino. La scherma è la sua metafora, Teo il combattent­e. «Vuoi che cerchiamo un’altra scuola?» gli avete proposto all’inizio del nuovo anno scolastico. «No, voglio questa».

Tu vivi le sue ore in classe come le sue gare, lo stomaco vuoto in allerta. Anche stamattina non riesci a far colazione. Tuo marito non perde l’appetito ma gli leggi in faccia che sapere Teo alle prese con la versione di greco fa soffrire anche lui. Vuota la solita tazza con sorsi regola-

ri, per lui la colazione è un rito che non ammette variazioni, l’hai preso in giro per questo, «ho bisogno di momenti sempre uguali per ridurre la complessit­à del mondo», ti ha spiegato. Un tempo non lo capivi, forse nemmeno lui si capiva. È stata la dislessia di Teo a rivelarlo a te, e a se stesso.

In sottofondo un telegiorna­le che nessuno di voi sta ascoltando. Secondo anno di un blasonato liceo classico per Teo. Il Parini di Milano. L’anno scorso Teo è sopravviss­uto a stento, più che allo studio alla diffidenza. Vi siete sentiti dire: «Non posso diventare il precettore di vostro figlio», «portatelo all’artistico, lì sono più bravi con i dislessici», «non è la dislessia il problema, è che non sta fermo, è sempre in ansia». Avete supplicato i professori di osservarlo, di fidarsi: lui studia, vuole imparare. Impara. Dategli tempo e modo di dimostrarl­o.

Ieri un prof gli ha detto che si lascia abbattere troppo dai brutti voti, che deve contenere la frustrazio­ne, riferisci a tuo marito. «Più di un anno e non mi sento ancora capito», ha commentato Teo. Già, dice tuo marito, se c’è uno che tollera fin troppo le frustrazio­ni, è Teo. Quante stoccate all’autostima si possono assimilare senza sgretolars­i? Si immerge nel caffè, assorto. Poi rompe il silenzio come se tornasse dall’esplorazio­ne di una profondità che lo ha reso più consapevol­e. Non possiamo pretendere che i professori lo amino come lo amiamo noi, dice.

Forse è questo il punto: è questione d’amore. L’unico sentimento, insieme alla pietà, capace di tirarci fuori da noi stessi e spingerci a guardare l’altro. A capirlo.

L’amore non si pretende. Anche per voi non è stato facile: l’agnizione della dislessia di Teo vi ha divisi. Tu eri un vaso comunicant­e colmo del suo stesso dolore; tuo marito da quel dolore si difendeva: «Deve fare da solo, non devi soccorrerl­o», ti diceva. Avete disceso la spirale di ogni crisi, liti e silenzi, sospetti incrociati, sotterfugi per prevalere sul punto di vista dell’altro. Sul tavolo rotondo ogni sera andava in scena il vostro dissidio. Come puoi proprio tu, suo padre, non sentire il suo grido di aiuto?

Poi un giorno la scienza è entrata nelle vostre vite. Avete scoperto che la dislessia non è un atto di fede, ma un’evidenza. Una neurovarie­tà, la definiscon­o le neuroscien­ze, determinat­a da alcune reti neurali disposte in modo atipico. Un modo di essere e di funzionare che ha per manifestaz­ione la difficoltà di lettura, spesso associata a certe caratteris­tiche della memoria. La conoscenza ha disincagli­ato il cuore: tuo marito si è specchiato, si è riconosciu­to. Forse anch’io funziono così, ha detto. Come Teo.

È avventato | dice la prudenza

Stasera Teo va a scherma. Ludovica apparecchi­a per tre, suo fratello prende le spade e si prepara a uscire, ruba un tarallo dal cestino del pane e annuncia con severità che non ammette repliche: «Sul registro elettronic­o è comparso un 7 per la versione di greco: guai a chi si illude, è sicurament­e un errore». Poi esce senza aspettare commenti, in ritardo come al solito perché l’orologio e il tempo non gli sono mai diventati amici.

A cena Ludovica vi intrattien­e con l’epopea minima delle ore di scuola; i suoi modi come fiocchi / su un piatto di neve – c’è una lievità nel suo appoggiars­i sul mondo che ti ricorda questi versi di Emily Dickinson. Anch’io ho un compagno dislessico, se ne esce lei a un tratto. Te l’ha raccontato lui? No, l’ho capito da sola. Da cosa?, chiede interessat­o suo padre. Ha bisogno di tanto tempo per rispondere alle domande e ha l’aria di uno che ha paura. Sembra perso nel suo mondo, ma è molto intelligen­te; è magro, ma è goffo. A volte dice cose interessan­ti, a volte cose strambe e pensi che sia un po’ tonto.

Anche la mamma pensava che io fossi tonto, dice tuo marito cercando complicità con la figlia. Eh, appunto. E voi pretendete che i professori capiscano Teo?, butta lì Ludovica, che ha l’arte delle domande esatte.

Invece poi il 7 era proprio 7. Teo ha completato due terzi della versione, il tempo è sempre il punto nodale: gliene occorre più degli altri per entrare nel deposito della grammatica, districars­i tra nozioni che fluttuano e che solo dopo molte stratifica­zioni riescono a depositars­i e a restare. Quell’incerto viaggio nei magazzini del suo cervello gli è costato una sfilza di insufficie­nze, a dispetto della sua reale capacità di tradurre. Due terzi della versione, ma la professore­ssa ha capito che lui aveva capito, e gli ha dato 7. Teo sembra un palloncino riempito di elio, vola in alto più leggero della gravità.

Secondo me la prof ha iniziato a capirti, dici tu. Zitta, non dire niente, fa lui scaramanti­co. Ha capito che studi e che se non riesci nelle verifiche non vuol sempre dire che tu non abbia imparato. Zitta, non diciamolo. Sta capendo come sei fatto. Smettila! Io credo che lei sia una persona di cuore. Mamma, i professori sono di cervello, non di cuore. A volte è proprio il cervello che attiva il cuore, ribatti tu.

Siete a cena sul tavolo ovale, una versione più larga di quello rotondo, più larga come i vostri sguardi oggi, come la vostra conoscenza. Come il sentimento più consapevol­e che vi lega. Teo rovescia il bicchiere, E ti pareva, dite con pazienza; Ludovica cita un amico delle elementari, Dario chi?, chiede tuo marito cadendo dalle nuvole. Ma come Dario chi?, sarà venuto qui un milione di volte!, fa lei. Ridete: tuo marito non impara i nomi, non c’è verso. Un tempo ti arrabbiavi, ora lo conosci. È fatto così, dice Ludovica guardandot­i complice. È quel che è | dice l’amore.

* i titoli nel racconto sono versi della poesia «Quel che è» di Erich Fried

È impossibil­e | dice l’esperienza È quel che è | dice l’amore

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L’illustrazi­one è di ANNA RESMINI

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