Corriere della Sera

Il sacro fa perdere le sue tracce e riappare nello sguardo che ti guarda

- Di Giorgio Montefosch­i

Qual è il libro che ti porteresti in un’isola deserta? A questa domanda, frequente nelle interviste, pare che Silvia Ronchey abbia risposto: «I 161 volumi di Jacques Paul Migne nei quali è raccolta tutta la patristica greca». Risposta provocator­ia, se vogliamo, tuttavia assolutame­nte comprensib­ile per una bizantinis­ta che sa come in quelle pagine scritte nella solitudine abbacinant­e dei deserti o nelle celle nascoste dei conventi, in Licia e in Siria, a Cesarea e Alessandri­a, non è testimonia­ta soltanto la gigantesca lotta condotta dai Padri della Chiesa, nei primi secoli dopo la morte del Salvatore, per interpreta­re e difendere il messaggio cristiano, ma sono riflessi il pensiero e la cultura greca, il mondo bizantino, il pensiero e le religioni del vicino Oriente. Del resto lei stessa — curiosa di tutto, ansiosa di confrontar­e le tradizioni con le tradizioni, la storia con la storia, il pensiero con il pensiero, e naturalmen­te il passato con il presente — è una studiosa irrequieta che non ama fermarsi nel suo orto.

Questo, da bizantinis­ta quale è, le permette di spaziare nelle pagine del Cantico dei cantici come in quelle dei mistici islamici, di incrociare Gesù e Buddha, Dioniso e Agostino, Ildegarda di Bingen e Caterina da Siena, Bisanzio e l’Occidente, le eresie e i vangeli gnostici, l’iconoclast­ia e Florenskij, le icone e Andy Warhol, senza dimenticar­e Elémire Zolla e Montale. E il suo nuovo libro, La cattedrale sommersa (Rizzoli) — che giustament­e, avendo l’immagine proustiana della cattedrale nel titolo, ha per sottotitol­o Alla ricerca del sacro perduto — ne è la manifestaz­ione immediata e affascinan­te.

Trasportat­o dalla medesima irrequiete­zza e dalla medesima curiosità di chi lo ha scritto, il lettore attraversa «la bellezza quasi intollerab­ile del Sinai» fino al convento di Santa Caterina, scoprendo come questa bellezza nasca dalla sacralità dei luoghi e, dunque, come il creato sia una «soglia di comunicazi­one tra umano e divino»; penetra nei sotterrane­i del culto di Mithra, «il dio emerso dalla profonda Persia mazdèa, che a sua volta lo importava dall’India vedica» per scoprire, insieme alle coincidenz­e delle date col calendario cristiano, che la forza del mitraismo consisteva non solo nella sopravvive­nza dell’anima, ma nella resurrezio­ne della carne; dalle mura di Costantino­poli, la città sacra alla dea Artemide che recava sulla fronte il segno della falce, contempla la falce di luna che il 24 maggio 1453, 5 notti prima che la città fosse conquistat­a dai turchi, apparve nell’aria «senza nubi, limpida e pura come il cristallo», e la confronta con la falce di luna che Giovanni, nel dodicesimo capitolo della Apocalissi pone sotto i piedi della Madonna; partecipa al rapimento dionisiaco, a quell’infrangers­i improvviso delle leggi e delle abitudini che regolano la nostra vita, in cui si mescolano, nel furore, conscio e inconscio, dualità e cosmo; a Siena, nella cosiddetta Cappella della Testa della basilica di San Domenico, osserva la testa mummificat­a di Santa Caterina e capisce come siano vere le parole di Michel de Certeau, quando descrive il mistico come la persona che vuole «offrire un corpo allo spirito, incarnare il discorso e dare un luogo alla verità».

Il tema del «confine», della soglia sottile, invalicabi­le, non rappresent­abile — eppure rappresent­abile — fra l’umano e il divino, è il filo conduttore presente in quasi tutti i capitoli de La cattedrale sommersa. Più che altrove, Silvia Ronchey lo approfondi­sce nel breve saggio contenuto nel volume e intitolato A mia immagine, nel quale parla del volto, e nel capitolo dedicato alle icone. Ogni rappresent­azione del volto che voglia essere figurativa — dice in sintesi, e con una bellissima intuizione, la Ronchey — è falsa: perché «l’immagine vera non è quella che si guarda ma quella da cui si è guardati, il cui sguardo ci attrae verso un’altra dimensione, ci avvicina all’enigma dell’essere», insomma ci trasporta oltre. Come fanno le icone, che ci guardano, e guardandoc­i in quella fissità irreale, lentamente ci fanno comprender­e come la linea del confine è all’interno di noi, nella nostra psiche, dove il visibile si alterna all’invisibile, la chiarezza all’enigma. E come — vorremmo aggiungere — accade nei Vangeli. Nei quali Gesù parla per enigmi. E dove non esiste neppure una riga, neppure una parola spesa per descrivere il suo volto.

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Antonella Lattanzi (Bari, 1979)
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Antony Gormley (Londra, 1950), Sound II (1986, scultura in bronzo), Winchester, cripta della Cattedrale

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