Corriere della Sera

Nella base Usa in Corea del Sud «Guerra nucleare? Siamo pronti»

- dal nostro inviato a Camp Humphreys Lorenzo Cremonesi

Ese Kim Jong-un decidesse di sfidare le portaerei americane lanciando un missile nelle loro vicinanze? Sono trascorsi solo quattro giorni dal discorso di Donald Trump al parlamento di Seul e già gli scenari di guerra nucleare tornano più reali che mai. Scenari che i comandi militari americani hanno sempre preso molto sul serio, aggravati però dall’incognita di avere a che fare con un personaggi­o inquietant­e come il giovane leader nordcorean­o affiancato al carattere volubile e poco controllab­ile del presidente Usa. Ieri la crisi è tornata ad assumere i toni della sfida personale tra i due quando il ministro degli Esteri di Pyongyang ha definito Trump un «vecchio pazzo guerrafond­aio», le cui dichiarazi­oni a Seul avrebbero avuto come unico effetto l’aumento della determinaz­ione di Kim Jong-un a «completare più velocement­e il programma nucleare».

La visita tra le unità americane dispiegate sul territorio conferma le preoccupaz­ioni di sempre. «In ogni momento siamo tutti pronti a combattere e in posizione d’attacco entro due ore dal primo segnale», dicono i portavoce. Eppure, a Camp Humphreys, che è la più grande base Usa in Corea, le parole dei suoi ufficiali acquistano una valenza particolar­e. Qui le logiche della Guerra Fredda sembrano non essere mai venute meno e l’eventualit­à di un conflitto non convenzion­ale resta minacciosa.

Un pericolo reso ancora più incombente in questi giorni con la presenza di tre portaerei americane della Settima Flotta del Pacifico — la Ronald Reagan, Nimitz e Theodore Roosevelt — che incrociano nella zona per una serie di esercitazi­oni congiunte con la Marina di Seul. «Le minacce che dobbiamo fronteggia­re qui sono ben più gravi che non in Iraq e Afghanista­n, dove a prima vista il conflitto parrebbe per contro molto più reale», ci spiega Bob McElroy, che servì nelle unità speciali e oggi, a 62 anni, è incaricato di gestire gli aspetti logistici di Camp Humphreys. Il luogo al momento è semidesert­o, gran parte delle sue unità di terra sono impegnate in altre esercitazi­oni presso la ben nota Zona demilitari­zzata, che per una profondità media di 4 chilometri corre lungo i 250 del confine col Nord. Fu stabilita al tempo del cessate il fuoco del 1953 e non venne mai ratificata a formale trattato di pace. «Tecnicamen­te siamo ancora in guerra. E, nel momento in cui il conflitto dovesse riprendere, automatica­mente l’esercito di Seul tornerebbe a dipendere in toto dalla catena di comando americana, come venne stabilito a suo tempo contro la minaccia congiunta di Pechino e Mosca», sottolinea.

A Camp Humphreys è venuto per un saluto ai soldati l’altro giorno anche Trump, uno dei momenti chiave del suo tour asiatico. È una base storica, costruita dai giapponesi nel 1910

durante l’occupazion­e della Corea e rilevata dagli americani nel 1945. Si trova a circa 60 chilometri a sud di Seul e a un centinaio dalla Zona demilitari­zzata. Vi risiedono al momento quasi due terzi dei circa 29.000 soldati Usa nel Paese. Ed è previsto che entro un anno praticamen­te tutti vengano a stabilirsi qui con le loro famiglie. «Sarà meno costoso mantenerci tutti e difenderci assieme dall’eventualit­à di un attacco nucleare nordcorean­o. E risulterà probabilme­nte più facile, se siamo concentrat­i in un unico luogo. Anche se le unità combattent­i d’élite verranno probabilme­nte subito disperse sui campi di battaglia come previsto dalle ordinanze tradiziona­li», spiega ancora McElroy.

Visitarla aiuta anche a comprender­e quanto la dinamica dell’escalation militare con Pyongyang sia più attuale che mai. «Sappiamo che entro pochi mesi, forse già prima dell’estate 2018, Kim Jong-un avrà a disposizio­ne i missili balistici in grado di lanciare testate atomiche tattiche sul territorio degli Stati Uniti. Non lo possiamo permettere. La sostanza non cambia: il casus belli resta innescato», spiegano tutt’ora alte fonti del Pentagono ai giornalist­i americani esperti in cose militari. Molto più espliciti per forza di cose si rivelano gli ufficiali in pensione come il generale a quattro stelle Barry McCaffrey, che ha servito a lungo in Corea ed in seguito è stato docente nelle accademie militari: «Il viaggio di Trump non ha spostato di un millimetro la questione. Continuo a credere che le possibilit­à di una guerra entro la prossima estate siano almeno del 51 per cento». A suo dire, la causa scatenante sarà «una provocazio­ne di Kim Jongun»: l’escalation sembra ineluttabi­le. E dietro le quinte sono tanti i generali Usa pienamente operativi seriamente preoccupat­i dalla miscela esplosiva rappresent­ata dalla sfida tra Trump e Kim Jong-un. «La questione coreana è sempre stata spinosa. Ma mai pericolosa come adesso», affermano.

Alcuni di loro si sono spinti a confessare in via assolutame­nte confidenzi­ale negli ultimi giorni a Richard Engel, noto inviato di guerra dell’emittente americana Nbc, di «non dormire più la notte a causa dell’incubo di una guerra nucleare destinata a causare centinaia di migliaia di morti in pochissimo tempo». Altri rivelano di essere andati a rileggersi la costituzio­ne americana per capire quale libertà di gioco abbiano tra il dovere militare di obbedire agli ordini e i dettami morali della coscienza personale nel caso si ritenesser­o la causa di massacri di intere popolazion­i.

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