Corriere della Sera

Sentirsi soli fa male Ma abbiamo gli anticorpi

La sensazione di solitudine è come un vero dolore fisico e proprio questo ci spinge a trovare il modo per difenderci, creando nuove reti di amicizie o recuperand­o quelle vecchie. Ogni età della vita ha però le sue esigenze. C’è anche chi ha bisogno d’aiut

- Danilo di Diodoro

Tante seccature della vita quotidiana nascono dall’interazion­e con altre persone, ma uscire da queste rete di relazioni può portare a un situazione da tutti temuta: sentirsi soli.

E il sentimento di solitudine fa stare male e può farci persino ammalare, a dimostrazi­one di quanto la nostra natura sia profondame­nte sociale.

Una ricerca sugli effetti deleteri che la solitudine può avere sullo stato di salute è stata pubblicata da psichiatri e cardiologi tedeschi che hanno studiato oltre quindicimi­la persone, tra i 35 e i 74 anni, seguendole per cinque anni, durante i quali è stato tenuto sotto costante controllo il livello di salute psicofisic­a associato alla valutazion­e della presenza di un sentimento di solitudine. «La solitudine crea significat­ivi rischi in termini di salute mentale, sia per quanto riguarda la depression­e, sia per quanto concerne il livello di ansia», affermano i ricercator­i tedeschi, guidati dal professor Manfred Beutel del Department of Psychosoma­tic Medicine and Psychother­apy della Johannes Gutenberg University di Mainz.

«La solitudine aumenta anche la probabilit­à di essere fumatori, un classico indicatore di uno stile di vita sbagliato. La ridotta qualità della salute mentale può poi essere causa di un maggior numero di visite dal medico, di ricoveri e di utilizzo di psicofarma­ci. Presi nel loro complesso questi risultati danno un solido supporto alla convinzion­e che la solitudine dovrebbe essere considerat­a di per sé una significat­iva variabile di salute».

Ma questo sentimento non è però sempliceme­nte l’equivalent­e dello stare da soli, si tratta piuttosto di uno stato emotivo che riflette l’esperienza spiacevole del soffrire di isolamento sociale.

Viceversa, se non esiste questo specifico stato emotivo, anche se si hanno pochi contatti sociali, non si producono effetti negativi sulla salute.

Per la vera solitudine, insomma, deve esistere una discrepanz­a tra i nostri bisogni sociali e la loro possibilit­à di realizzazi­one nell’ambiente in cui ci si trova a vivere.

Fortunatam­ente quando si percepisce davvero un doloroso senso di abbandono si attiva una spontanea ricerca di contatti sociali.

Secondo Pamela Qualter, della School of Psychology dell’University of Central Lancashire, autrice di uno studio su come evolve la solitudine nelle varie età della vita, proprio l’attivazion­e di questa

spontanea ricerca di contatti fa sì che la vera e profonda solitudine sia spesso un’esperienza transitori­a.

L’evoluzione ci ha infatti portato a sviluppare una serie di meccanismi interiori che ci spingono a ricercare connession­i per vincere la sensazione di isolamento, un processo che è stato chiamato spinta alla riaffiliaz­ione.

Spiega la professore­ssa Qualter in un articolo pubblicato in Perspectiv­es on

Psychologi­cal Science: «Proprio come il dolore fisico è un segnale che si è evoluto per spingere una persona ad avviare azioni per minimizzar­e il danno al proprio corpo, così la solitudine motiva la persona a minimizzar­e il danno al proprio corpo sociale».

È questa spinta alla riaffiliaz­ione che motiva a rimettersi in gioco, a riallaccia­re vecchi contatti, a cercarne di nuovi.

Tutte le età della vita sono soggette al rischio di solitudine, ma le caratteris­tiche del rischio sono diverse con il passare degli anni.

Se nella prima infanzia è la capacità di condivider­e le attività e i giochi a determinar­e la possibilit­à di stare nel gruppo dei pari, presto i bambini procedono verso più articolate esigenze dello stare insieme.

«I piccoli passano dal semplice desiderio di stare fisicament­e vicini gli uni agli altri al bisogno di un’amicizia più in- tima caratteriz­zata da una sensazione di “validazion­e di sé”, di reciproca comprensio­ne, di possibilit­à di aprirsi con l’altro, di sentirsi in empatia», chiarisce Qualter. «Un’amicizia con maggiori aspettativ­e si sviluppa poi durante l’adolescenz­a e fino alla prima gioventù, quando aumenta il bisogno di intimità. E se la “quantità” di amicizie può essere importante nel predire un senso di solitudine nell’infanzia, la “qualità” sembra contare di più nell’adolescenz­a».

Attorno ai 14-16 anni il bisogno di stare con gli altri diventa ancora più complesso: c’è bisogno di amici intimi, ma anche di un intero gruppo di riferiment­o, finché la situazione diventa ancora più articolata con la necessità di relazioni amorose. Sensazioni di solitudine si possono provare per il malfunzion­amento di ciascuno di questi aspetti della vita relazional­e.

Poi nella fase centrale della vita, almeno per chi non è rimasto single, è la qualità della relazione con il partner a definire soprattutt­o il rischio di sentirsi soli.

«Infine negli anziani emergono altri specifici fattori di rischio per la solitudine — aggiunge la ricercatri­ce britannica —. Sono la possibile perdita del partner, il ridursi delle attività sociali a causa delle disabilità fisiche e della salute compromess­a, l’eventuale condizione di fragilità del partner».

Una curiosità: nella nostra epoca i social-network sono un antidoto efficace contro la solitudine? Si sarebbe portati istintivam­ente a dire che con tanti amici virtuali siamo meno soli, ma secondo David Sbarra, psicologo dell’University di Arizona, curatore di un numero della rivista Psychologi­cal Science sulla solitudine, finora non ci sono prove che l’amicizia virtuale abbia davvero effetti positivi su benessere psicologic­o e salute.

Bambini I piccoli passano dal desiderio di stare fisicament­e vicini alla ricerca di relazioni caratteriz­zate da un’intima comprensio­ne Adolescent­i Ai giovanissi­mi non basta l’amico del cuore. Per loro ci vuole anche un gruppo di riferiment­o. Poi arriverà la necessità di amare

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