Corriere della Sera

IL GIOCO DEL CERINO

- Di Antonio Polito

Diciamoci la verità: non è solo colpa di Renzi lo stato pietoso dei rapporti a sinistra. Oggi ricordiamo quella di Veltroni come un’età dell’oro per l’unità del centrosini­stra; ma anche dieci anni fa, agli albori del Pd, la sinistra radicale ruppe con il nuovo partito, andò da sola e disperse quasi due milioni di voti. Il Pd fece il suo massimo storico, 33,2%, e non servì a nulla. Né è solo colpa di Renzi se lo schieramen­to progressis­ta parte indietro nella gara elettorale. Dalla nascita della Seconda Repubblica, nel 1994, il centrodest­ra è quasi sempre stato maggioranz­a nel Paese, anche quando ha perso perché si è disunito. La sinistra italiana, al suo meglio, rappresent­a un terzo dell’elettorato (Berlinguer nel 1976, Veltroni nel 2008). Al suo peggio, un quarto (come è adesso il Pd nei sondaggi, o come fu per Bersani cinque anni fa). Sempre molto lontana dunque da quel 3840% che nei sistemi bipolari può portare alla vittoria: figuriamoc­i ora che il sistema è tripolare, e bisogna fare i conti con un M5S di pari forza elettorale.

Si potrebbe insomma dire che il centrosini­stra rischiereb­be di perdere le prossime elezioni anche se fosse unito.

Gli appelli allo stare insieme, al «volemose bene» in nome della vittoria comune, sono perciò spesso puri artifici retorici. Così come l’apertura fatta ieri da Renzi agli scissionis­ti di Mdp, applaudita anche da molti avversari interni, non sembra destinata a produrre risultati concreti, e sa più di gioco del cerino pre-elettorale, per passare all’altro la responsabi­lità della rottura.

Non è dunque tutta colpa di Renzi. Ma certo Renzi ci ha messo del suo, in questi anni. Quando in un famoso fuorionda Delrio si lamentò del fatto che i renziani sembravano tutti felici della scissione a sinistra nella convinzion­e di avere così più seggi da spartirsi, aveva ragione. Il danno che quella rottura arrecò al Pd va infatti ben oltre i voti effettivi che Bersani e D’Alema si porteranno via (vedremo quanti sono); perché colpì al cuore la credibilit­à di un partito che era nato presentand­osi come un contenitor­e di tutto il centrosini­stra, e che invece finisce la legislatur­a con i due presidenti delle Camere già in campagna elettorale con lo slogan «mai con il Pd».

Con tutto il rispetto per Emma Bonino, per gli alfaniani, e perfino per Pisapia, i tre forni evocati ieri dal segretario del Pd per metter su una coalizione, difficilme­nte basteranno a

ricostruir­e ciò che è andato distrutto. Ma fin qui siamo alla tattica. Renzi se ne potrebbe pure infischiar­e se avesse ancora la spinta propulsiva degli inizi, o quella del Veltroni di dieci anni fa. E la ragione per cui non ce l’ha più non è tanto il suo carattere o la sua presunta antipatia (quattro anni fa era simpaticis­simo a tutti proprio per il suo carattere); sta piuttosto nel fatto che il Renzi di oggi ha già dato la sua prova di governo, anche lunga, guida un partito che è stato al potere per l’intera legislatur­a, e dunque non può più promettere un nuovo inizio come se niente fosse. Ancora ieri, mentre in Direzione pronunciav­a la sua «apertura» a sinistra, il leader era giustament­e preoccupat­o di aggiungere un attimo dopo: «ma senza abiure della nostra opera di governo». Il guaio è che quell’opera è oggi giudicata male dall’elettorato esterno al Pd anche al di là dei suoi demeriti, forse proprio per l’eccesso di aspettativ­e che aveva creato. Un solo esempio: il Jobs act è stata una buona legge per rinnovare il mercato del lavoro, forse la migliore riforma del quinquenni­o; ma se la presenti come il toccasana che crea occupazion­e stabile e poi il precariato giovanile torna appena finiscono gli incentivi, ti si ritorce contro, e toglie credibilit­à anche alle altre riforme che annunci, in una specie di spirale che si è avvitata fino alla sconfitta referendar­ia.

Renzi avverte questo problema. E infatti da qualche mese sembra tentato di chiedere voti non come il continuato­re dell’opera sua e di quella di Gentiloni; ma come il «nuovo» che torna, come l’uomo che riparte daccapo, e perciò prende in prestito temi classici del populismo, per esempio l’attacco all’Europa o a Bankitalia. Ma proprio mentre lui insegue i Cinquestel­le, accade che il centrodest­ra risorge dalla sue ceneri in una versione «governista» che assomiglia sempre di più a Tajani, a Zaia, a Maroni, a Musumeci, come la forza che può fermare il populismo grillino. Il tripolaris­mo è un ambiente già di per sé molto ostile per un partito riformista; se poi lo stringe come in una morsa, da destra e da sinistra, rischia di stritolarl­o.

Forse è già tardi per riparare. Ma qualsiasi tentativo di rilanciare il centrosini­stra non può che passare da una rilettura onesta e critica degli anni del governo, finora da Renzi sempre rifiutata, perfino dopo la disfatta referendar­ia. Non un’abiura, certo; ma un discorso di verità, dopo tanto spin.

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