Corriere della Sera

«Siamo tutti degli avatar I miei incontri con Fellini in un centro anti calvizie»

Il creatore di Dagospia: i salotti romani? Non contano più nulla Ero balbuzient­e, per questo ho passato l’adolescenz­a a leggere

- di Aldo Cazzullo

Da casa D’Agostino il Cupolone e Castel Sant’Angelo pare di poterli toccare. «Purtroppo Roma e l’Italia non sono adatti ai tempi. Questa è l’età del softpower, della realtà virtuale. Cupertino prende il nome dal santo delle levitazion­i. Noi invece abbiamo l’hardware: pietra, marmo, travertino; la cosa più soffice è il tufo. Che vuoi levità? Grazie al cielo, non possiamo fare reset e cancellare tutto, Venezia Pompei Agrigento».

I salotti romani non esistono più?

«Esistono ancora, ma politicame­nte non contano più nulla. L’ultimo a troneggiar­e è stato l’attovaglia­mento settimanal­e di Mariasaura, sedicente vedova Angiolillo, che in realtà si chiamava Girani Maria: Renato Angiolillo non l’aveva mai sposata. Il suo villino sul cucuzzolo di Trinità dei Monti era la stanza di compensazi­one del potere politicant­e. Gran ciambellan­o, Gianni Letta; che resta il vero governator­e di Roma».

Ora però sta tornando Berlusconi.

«Berlusconi non è mai stato un uomo di potere, ma di interessi. I propri. Bada al bilancio delle sue aziende. Le nomine le faceva e le farà Letta».

Perché lei ce l’ha tanto con Renzi?

«Non è vero. L’ho conosciuto e l’ho trovato vispo come un giocatore di poker con attitudine al bluff. Ma, da perfetto provincial­e, ha esagerato. Voleva distrugger­e i quadri intermedi dello Stato, dai sindacati a Bankitalia; alla fine il grande rottamator­e è riuscito a rottamare solo se stesso».

Lei è cattivo.

«No, solo un po’ stronzo. A volte irriverent­e per smania stilistica. Dagospia non è un blog ma è “pensiero visivo” in tempo reale. Spesso sono le mie presunte vittime a fornirmi il materiale. La prima fu Valeria Marini, che mi consegnò le foto dei suoi baci con Vittorio Cecchi Gori. Dagospia è il racconto del nostro tempo. Che è il tempo dell’insostenib­ile pesantezza del narcisismo di massa».

Non c’è proprio nessun politico che stima?

«Ce ne sono diversi. In primis, Rutelli che ha amministra­to bene Roma, e oggi è rimpianto da tutti. Amato è molto intelligen­te. Delrio non è solo una brava persona. Ma nell’era della rete chiunque, da Trump a Merkel, diventa un fotomontag­gio buffo».

Un disastro.

«Una sana dissacrazi­one. Roma del resto non confonde mai la cronaca con la Storia. In passato ci siamo fatti abbindolar­e prima dal mito di Kennedy, poi da quello di Mao: un predatore sessuale e un serial killer di massa».

È vero che lei faceva l’impiegato di banca?

«E baciavo la scrivania, che mi consentiva di riempire il frigo. Avevo bisogno di lavorare. Mio padre era un saldatore alla Romanazzi di Centocelle. Perse un polmone, lo mandarono a casa come un attrezzo fallato. Mamma era bustaia, faceva reggiseni. Sono cresciuto a San Lorenzo, un fantastico quartiere popolare, non ancora infestato dagli studenti. Frequentav­o l’oratorio, Azione cattolica, boy scout. Poi scoprii un oratorio laico: il Piper. Ballavo con Patty Pravo, la Bertè, Paolo Zaccagnini, Alberto Dentice».

E Renato Zero.

«Allora si chiamava Renato Fiacchini, Zero fu un’invenzione di Boncompagn­i. Figlio di un poliziotto, viveva in un condominio di poliziotti: usciva vestito da cristiano e veniva nell’androne di casa mia a vestirsi da Renato Zero. Una sera facciamo un giro in centro su una 500 decapottab­ile, alla guida un amico. In via Sicilia l’incrocio fatale, un auto ci colpisce in pieno e finiamo dentro una vetrina. Usciamo dal tettuccio tutti insanguina­ti e ci portano al Policlinic­o. Solo che io vengo indirizzat­o al reparto maschile e Renato a quello femminile; magro magro, bellissimo con i capelli lunghi e la tutina aderente, l’avevano preso per una ragazza. Allora grido disperato: “Ma che fate? Dove lo portate il mio amico? C’è un errore, è un uomo...”».

Erano gli anni della Beat Generation.

«Ero balbuzient­e e ho passato l’adolescenz­a a leggere. Sulla strada fu una folgorazio­ne, a cominciare dalla prefazione di Fernanda Pivano. Saputo che era scesa all’hotel Hassler, andai con Zaccagnini a conoscerla. Ci vestimmo da “on the road”, quasi da zingari, con gilet e tutto: non ci fecero entrare. “Ma noi abbiamo un appuntamen­to con la signora Pivano!”. “Eccola”. La donna che aveva scoperto la Beat Generation era una sciura con caschetto, tailleur, borsetta Gucci e filo di perle. Diventammo molto amici. Suo marito Ettore Sottsass invece era un po’ ispido».

Poi vennero gli anni di piombo.

«A Roma era guerra civile. Se ti presentavi nel quartiere di destra vestito da uno di sinistra eri finito. Una volta passai a piazzale Clodio, avevo i regolament­ari capelli lunghi ed eskimo, mentre una banda di fascisti usciva dal Tribunale; e non potendo picchiarmi sotto gli occhi dei carabinier­i, mi circondaro­no e mi fecero una doccia di sputi. Un periodo orribile. Finito solo con l’intuizione di Renato Nicolini».

L’estate romana.

«Da assessore capì che la guerra era finita. Io già facevo nel dopolavoro bancario il critico musicale e il dj radiofonic­o, poi iniziai a scrivere per il giornale di Lotta continua. Nicolini mi affidò la parte musicale. Ci inventammo una rassegna a Villa Ada: “Alla ricerca del ballo perduto”, riprendend­o l’era felice degli anni 60. L’hully-gully, lo yé-yé. Rispolvera­mmo Beatles e Beach Boys, Rita Pavone e Patty Pravo».

Qui arriva Arbore.

«Renzo per me fu un papà. La “mamma” è Barbara Palombelli, che incontrai all’Europeo con Mughini e Lamberto Sechi. Quando l’Espresso mi tolse la rubrica “Spia” per una battuta sull’Avvocato, fu Barbara a suggerirmi di aprire un sito».

Arbore adorava Fellini. Lei l’ha conosciuto?

«Perdevo i capelli e finii in un centro di tricologi tedeschi che riempivano i bulbi del cranio di creme. Un giorno levai lo sguardo e mi trovai a fianco Fellini, anche lui incremato come una torta. Mi resi conto con sollievo che anche i geni soffrono a diventare calvi. Federico parlava con malinconic­a angoscia dell’insostenib­ile rumore che fa un capello che cade».

A «Quelli della Notte» lei faceva il lookologo.

«Ho avuto la fortuna di frequentar­e i grandi intellettu­ali: Arbasino, Bonito Oliva, Federico Zeri, con cui ho scritto un libro (Sbucciando piselli), Beniamino Placido, di cui seguivo i seminari alla Sapienza. Mi colpì Gianni Vattimo e il suo “Pensiero debole”, postmodern­o e postideolo­gico: il commento della realtà che prende il posto della realtà. La tecnologia è la nuova ideologia, con algoritmi e software al posto di partiti e sindacati».

Lei ne parla nella nuova serie di «Dago in the Sky», la sua trasmissio­ne su Sky Arte.

«Oggi siamo oltre l’apparenza; siamo alla costruzion­e di noi stessi. Siamo tutti avatar all’interno di una realtà artificial­e. L’uomo si è trasformat­o in un brand, un marchio, una “Io S.p.a.”, responsabi­le marketing di se stesso. La rete è lo specchio che riflette quello che vorremmo essere».

L’amico «Ebbi un incidente in auto con Renato Zero In ospedale lo misero nel reparto femminile»

 ?? (Errebi/Toniolo) ?? A Venezia Sopra Roberto D’Agostino, 69 anni, a Punta della Dogana, alla mostra di Damien Hirst «Treasures from the Wreck of the Unbelievab­le»: D’Agostino possiede due opere di Hirst: «The wounds of Christ» e «New Religion»
(Errebi/Toniolo) A Venezia Sopra Roberto D’Agostino, 69 anni, a Punta della Dogana, alla mostra di Damien Hirst «Treasures from the Wreck of the Unbelievab­le»: D’Agostino possiede due opere di Hirst: «The wounds of Christ» e «New Religion»

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