Corriere della Sera

Elogio della gentilezza

- Di Paolo Di Stefano

In una famosa analisi del sonetto di Dante «Tanto gentile e tanto onesta pare / la donna mia quand’elli altrui saluta», il filologo Gianfranco Contini si concentrò sulla coppia di aggettivi, spiegando che erano quasi sinonimi. Quasi. Perché mentre l’«onestà» equivaleva alla nobiltà esteriore, di gesti, di portamento e di aspetto, la «gentilezza» era la nobiltà d’animo, una virtù spirituale o morale che ne conteneva tante altre: dalla modestia alla magnanimit­à alla dolcezza...

Per i poeti siciliani che precedette­ro Dante «gentilezza» (da «gens», cioè stirpe) era soprattutt­o uno status sociale, nobiltà di nascita o di sangue. Poi invece divenne un attributo essenziale dell’Amore con la maiuscola. Il poeta stilnovist­a Guido Guinizelli scrisse che l’Amore abita nella gentilezza «così propriamen­te / come calore in clarità di foco». È il momento in cui la gentilezza comincia a distinguer­si dalla cortesia, che è in tutta evidenza una qualità del cortigiano, più vicina alla buona educazione e all’impeccabil­ità dei modi che alla qualità morale o di sentimenti.

Ancora oggi, per la verità, quando parliamo di «gentilezza» cadiamo nel tranello semantico: gentile vs maleducato. E forse la Giornata Mondiale della Gentilezza (che è ricorsa ieri come ogni 13 novembre) è stata creata apposta per rivendicar­e un po’ di sacrosanta buona educazione. Naturalmen­te in un mondo essenzialm­ente maleducato, scorbutico, brutale come il nostro la gentilezza così intesa sarebbe già tanto, ma non è tutto. Perché, lungi dall’essere l’equivalent­e della cordialità zuccherosa, la gentilezza è, insieme ad altre virtù, un cardine della «grammatica dell’interiorit­à»,

«Tanto gentile e tanto onesta pare» è un sonetto tratto dalla Vita Nuova di Dante scritta tra il 1282 e il 1293 come direbbe uno studioso dei sentimenti qual è Antonio Prete.

Qualche volta confina con la mitezza, cioè con una quiete dell’animo che non esclude la fermezza contro l’ingiustizi­a. Qualche volta equivale alla magnanimit­à, cioè alla equilibrat­a coscienza dei propri mezzi nel rapporto con gli altri. Può prendere i colori della generosità e della compassion­e: partecipaz­ione alla sofferenza degli altri, un sentimento nettamente in declino, che genera il sospetto dei più. «Da

Lo studio Il 40% degli americani ammette di essere sgarbato. Il motivo? La mancanza di tempo

George Saunders, che un paio d’anni fa, parlando ai neolaureat­i della Syracuse University, ha tenuto un vero e proprio elogio della gentilezza come esercizio mentale e spirituale da rilanciare: ricordava di aver trascurato, anzi deriso, una compagna di scuola elementare che se ne stava sola in un angolo a masticarsi una ciocca di capelli; ricordava di aver mancato molte, troppe occasioni di compassion­e per un altro essere umano. «Sarà forse un po’ semplicist­ico — disse —, e sicurament­e difficile da mettere in pratica, ma direi che come obiettivo nella vostra vita fareste bene a “cercare di essere più gentili”». Ammetteva che è difficile essere gentili: si rischia di apparire «arcobaleni» e «cucciolott­i», proprio nell’epoca dell’impazienza. Già, perché per essere gentili si richiede pazienza.

Non c’è abbastanza tempo per essere gentili, cioè per avere cura degli altri: uno studio della ricercatri­ce Christine Porath pubblicato sul «New York Times» nel 2015 rivelò che il 40 per cento degli americani ammetteva di essere sgarbato per mancanza di tempo. Ma la stessa Porath fece notare che la scortesia di un superiore non fa altro che demotivare e dunque rallentare la produttivi­tà dei dipendenti. Essere meno sgarbati per favorire la produttivi­tà dei dipendenti? Niente di peggio: «Poco gentile e poco onesto pare...».

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