Corriere della Sera

Una scrittura ispirata dal ricordo dei maestri

- Di Arturo Carlo Quintavall­e

Quando Vittorio Sgarbi scrive, il suo racconto è diverso dalla passione polemica degli interventi televisivi, nelle sue pagine c’è altro: scrittura densa di riferiment­i, continua tensione per la scoperta. Ogni nuovo incontro con le opere è sempre scelta di far capire, di proporre prospettiv­e nuove. E questa scrittura ha una tradizione, una storia, e si spiega anche nel segno del ricordo. «Eravamo ragazzi all’Università di Bologna, studenti nell’aula di storia dell’arte che era stata di Roberto Longhi, freschi allievi di Francesco Arcangeli», scrive Sgarbi e, ancora, a proposito della «vita senza idillio» di Antonio Fontanesi: «Un poeta lirico del fiume, un temperamen­to tormentato e disperato. Mi chiedo come mai il mio maestro Francesco Arcangeli, bolognese di indole malinconic­a, non ce ne abbia mai parlato in questi termini nelle sue fluviali e appassiona­nti lezioni, mentre ci portava nei vortici travolgent­i di William Turner, o nei boschi inestricab­ili di John Constable». Dunque la lezione di un grande critico che riscopriva nell’Informale la modernità di Giorgio Morandi, ma insieme anche l’acribia di Carlo Volpe, storico dell’arte raffinato. Queste le origini di Sgarbi, la sua storia, ma, al maestro, si aggiunge il dialogo continuo con Roberto Longhi. Dunque da una parte i luminosi trionfi di Giovan Battista Tiepolo, dall’altra il realismo — borghese — di Giandomeni­co, oppure la fotografia di Wilhelm Van Gloeden intesa come riscoperta del realismo caravagges­co, ma senza dimenticar­e che i primi studi sul pittore lombardo sono di Lionello Venturi, Matteo Marangoni e Hermann Voss. Insomma la scrittura felice, appassiona­ta di Sgarbi nasce da una storia — alta —, quella dei primi allievi di Roberto Longhi a Bologna.

Il libro è denso di scoperte, di scelte, anche ricordi di importanti acquisizio­ni per la collezione di famiglia, e poi ecco Giovan Battista Piazzetta evocatore della pittura del Seicento, Giacomo Quarenghi che esporta Palladio in Russia, Antonio Canova scultore del sublime, Medardo Rosso che, con le vibranti trasparenz­e dei bozzetti in cera, stimola Rodin. Nuove attribuzio­ni, nuove letture ma, insieme, una consapevol­ezza: scrivere è invenzione, scrivere è sempre racconto, ma, per narrare, si deve conoscere la storia. Lo dice Longhi, «Bellotto è un pittore della realtà» e Sgarbi ci fa capire: Canaletto e Bellotto usano la camera chiara, la prospettiv­a, ma mai il primo avrebbe dipinto, come fa Bellotto a Dresda, una chiesa, la Kreuzchich­e, distrutta. Insomma la chiave di lettura della storia dell’arte è da una parte il realismo, dall’altra il — sublime — del classico. Vivono ancora, nel critico ferrarese, le illuminant­i lezioni dei maestri nelle aule della amata Bologna.

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