Dal Medioevo al Novecento: nella lingua c’è il nostro sangue
Le sferzate di Dante, Ariosto, Manzoni. La Resistenza di Calvino E poi la modernità di Moravia. Mentre con Pasolini la poesia si fa inchiesta
Siamo ciò che leggiamo come siamo ciò che mangiamo, le case che abitiamo, le idee che facciamo nostre. Talvolta di più: siamo anche quella grande letteratura italiana mai digerita, mai sposata fino in fondo, raccolta in questa nuova collana del Corriere della Sera, «Grandangolo». Le sferzate inferte alle Lettere da Dante, Ariosto, Manzoni (per citarne tre) sono altrettante alterazioni inoculate al nostro patrimonio genetico; la lingua con cui ci esprimiamo, per quanto imbarbarita dalla contemporaneità, è figlia di quella scuola come noi siamo figli di un magmatico ceppo antropologico e culturale, inestirpabile dalla nostra vita. E così i nostri nodi esistenziali, le criticità del nostro convivere, del governarci: il sangue della letteratura italiana è il nostro sangue e viceversa, sia esso linfa d’amore o sozzura di guerra, crosta di morte.
Basta voltarsi di lato e il secolo breve è lì a specchiarci. Nessuno storico ha potuto interpretare l’uomo delle due guerre, il suo coraggio e la sua solitudine, il suo sangue, come lo ha fatto la letteratura del Novecento.
Prendi la Resistenza e vedi il Piemonte, Torino, l’Einaudi, l’Italo Calvino de I sentieri dei nidi di ragno che fa di una prefazione a Una questione privata di Beppe Fenoglio («costruito con la geometrica tensione d’un romanzo di follia amorosa e cavallereschi inseguimenti come l’Orlando furioso») l’investitura definitiva: «Il libro che la nostra generazione voleva fare adesso c’è e il nostro lavoro ha un coronamento, un senso»; Calvino che sarebbe stato Calvino, Fenoglio che sarebbe rimasto un brado e avrebbe piegato la frase alla terra, al sangue della Langa, sognando e scrivendo in inglese.
Cesare Pavese da Santo Stefano Belbo portava le pene del cuore e il sangue degli americani, di Hemingway e Lee Masters, del Moby Dick melvilliano; Primo Levi portava la ferita della deportazione e l’acume del chimico: entrambi non sopravvissero ai loro demoni e i loro suicidi sono i nostri suicidi, la mesta sconfitta dell’intelligenza davanti alla vita.
«Temeva una nuova guerra più di tutti noi» scrisse Natalia Ginzburg a proposito di Cesare Pavese. Anche lei visse a Torino, studiò al liceo Alfieri (il Vittorio del «fortissimamente volli» che già si era preoccupato di sfrancesizzare la lingua a Firenze) e si impegnò in politica; stravide per Umberto Saba (ebreo e triestino come il padre, come Italo Svevo), si trasferì a Roma ma era nata a Palermo: la marginale Sicilia così centrale per le italiche lettere, col sangue della storia (il nostro sangue, la nostra storia) che sempre scorre, scorre, scorre. Talvolta scroscia, magari per niente.
Leonardo Sciascia è limpido e ironico, mai dogmatico, nel restituire le malattie (mafia, corruzione, torbide connivenze) dell’isola e del Paese; Giuseppe Tomasi di Lampedusa ci riconsegna una società e un individuo immutabili nel tempo: «Tutto deve cambiare perché tutto resti come prima» è oggi la citazione più abusata (e calzante) nel descrivere l’Italia, eppure Il Gattopardo suonava antico, fu rifiutato (anche da Einaudi) e uscì dopo la morte dell’autore. La sua radice sta nell’indagine «veristica» di Giovanni Verga, nel Pirandello delle maschere e de I vecchi e i giovani che sentenziò il fallire (altro bagno di sangue: i moti dei Fasci contadini, 1893) del Risorgimento, mentre prende campo una nuova classe borghese che tradisce ogni ideale, sconfessa ogni utopia.
Ne menerà di legnate, certa borghesia italiana, ma col passare del tempo ne subirà sempre più. Alberto Moravia sparerà i suoi colpi fin da Gli indifferenti, trivellandola con algidi dialoghi e una sola pistola, per giunta scarica, che vale quanto un plotone esecutivo; Pier Paolo Pasolini ne farà il metro dell’orrore: borghesia («la più ignorante d’Europa») e modernità («Io sono una forza del Passato»). Eppure quanta novità in quella forma d’intellettuale senza freno, tra quei Ragazzi di vita e quel Petrolio, il fango del calcio di periferia e i riflettori della televisione (che lui avrebbe abolito, così come la scuola dell’obbligo), dal sangue di Salò (Le 120 giornate di Sodoma) a quello di Ostia.
È la stagione che può abbattere ogni steccato: la poesia sa fare inchiesta, il cinema stupra ogni immaginario mentre il linguaggio taglia e cuce, assimila, nutre, attraversa le arti, accoglie l’urlo della piazza come il mantra dei filosofi; muore e poi rinasce e sempre cerca, cerca, cerca, cerca.
Può essere la fine di ogni riferimento classico ma niente è come sembra: l’ingegnere Carlo Emilio Gadda, il romanziere che lontano dalle mode ha più di tutti sperimentato, smontato e rimontato la sua opera, muore sulle parole dei Promessi sposi (lo conosceva a menadito, glielo rilesse Pietro Citati); la lingua fa il suo giro, in Arno sciacqua i panni e lava via il suo sangue, il nostro sangue, pronta per una prossima avventura.
Leonardo Sciascia è limpido e ironico nel restituire le malattie dell’isola e del Paese