Corriere della Sera

Praticanti senza gioco Genitori-dirigenti e calciatori-aziende Così abbiamo perso qualità e talento

- Di Mario Sconcerti

Trovo poco interessan­te la discussion­e sulle dimissioni di Ventura e Tavecchio, devono andarsene ma non sono il Male. Cacciati loro non hai la soluzione. Resta il poco del calcio italiano, è quello il vero problema. Io penso che se da vent’anni non troviamo giocatori di qualità diversa vuol dire che in questo Paese, ma anche in molti altri, si è cambiato il modo di giocare e intendere il calcio. La malattia è evidente, la cura non c’è. Possiamo però provare ad analizzare i sintomi. Cos’è cambiato in questi ultimi venti anni? Prima di tutto si è cercato di reagire al modello di Sacchi. Tutto comincia da lì. Quel Milan era pressing puro e velocità, era soffocante e, particolar­e decisivo, con qualche variabile poteva diventare universale. Così si è finito per correre sempre più velocement­e. Sacchi ha cambiato il metodo di lavoro, il carico e la frequenza degli allenament­i per potere resistere più a lungo sul campo a ritmi alti. Avendolo imitato in molti ci siamo trovati con un calcio a cento all’ora, ma la velocità uccide il tempo. Più vai veloce e più il tempo rallenta. Aggredisci ma pensi sempre meno, costringi i giocatori ad arrivare al confine della tecnica. Oltre il pallone non è più controllab­ile. La reazione è stata il possesso palla, cercare cioè di riprendere il controllo della velocità, renderla relativa. Ma una velocità ridotta non permette più il dribbling, per fare un cross bisogna sovrapporr­e due o tre giocatori. Questo ha alleggerit­o il peso della tecnica, ha disabituat­o alla qualità. La sintesi è un calcio meno veloce e di minor qualità. Quasi uguale in tutto il mondo. Un calcio che non progredisc­e. Secondo punto. Chi insegna calcio oggi in Italia? Ci sono circa settemila scuole con una decina di istruttori ciascuna. Fanno settantami­la istruttori. Chi ha insegnato agli insegnanti? Praticamen­te nessuno. Portando dovunque maestri dilettanti abbiamo tolto ai ragazzi la capacità di giocare come credono. Devono giocare come dicono i maestri dilettanti. Così i ragazzi hanno smesso di pensare, eseguono. È aumentata molto la loro competenza, sanno tutto di tutto, ma non giocano a calcio, lo praticano. Terza cosa. L’arrivo di una vera nuova classe dirigente, i genitori. Pagano per far giocare il figlio, quindi intervengo­no. Vanno in massa agli allenament­i, alle partite. Questo ha portato il calcio dei ragazzini a spezzarsi in undici individual­ità, ognuno gioca per piacere al proprio genitore, per non sentirlo litigare, aumenta in modo esponenzia­le la sua tensione e la possibilit­à di scelte sbagliate nel gioco. Perché ormai non è più un gioco. Quarto punto. Vent’anni di television­e hanno cambiato la psicologia del calciatore. Prima giocava per ventimila persone, ore per milioni ogni volta. La sua esposizion­e lo ha reso una grande azienda personale, ne ha allungato le esigenze, forse i vizi, l’autostima, l’importanza, ne ha fatto un uomo assolutame­nte particolar­e. Questo lo porta a pensare prima a sé, ai propri interessi generali anche dentro la singola partita. Ultimo punto, sconosciut­o e fondamenta­le. Abbiamo tutti accettato che il calcio sia gestito solo dal calcio. Allena solo chi ha giocato in serie A. Sacchi, Sarri, Mourinho sono catalogati a livello di eccezioni inevitabil­i. In sostanza il calcio è sempre in mano alle stesse idee, una generazion­e dopo l’altra. Non permette circolazio­ne, difende solo se stesso, cioè non è un mondo libero. Einstein, Marchionne, Zanardi, Montale, uno qualsiasi dei tanti allenatori di dilettanti, non avrebbero potuto iscriversi a un corso serio per allenatori. Si può continuare così?

L’involuzion­e Tutto è cominciato dopo Sacchi quando si sono aumentati prima la velocità e poi il possesso palla: ne è uscito un calcio tutto uguale La chiusura Il calcio è gestito solo dal calcio, allena solo chi ha giocato in serie A È un mondo chiuso, che difende se stesso, senza circolazio­ne di idee

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