Corriere della Sera

L’inno di Mameli (precario dal ’46) ora è nazionale

- Di Aldo Cazzullo

Quando Goffredo Mameli scriveva le parole del suo inno, non poteva immaginare che 170 anni dopo sarebbe davvero diventato «il canto degli italiani» anche per il Parlamento repubblica­no, da lui vagheggiat­o fin dallo storico telegramma a Mazzini: «Roma, Repubblica, venite!». In questo lungo tempo, l’inno di Mameli è stato denigrato in tutti i modi possibili. Si dice sia retorico. Ma le parole sono retoriche quando sono contraddet­te dai fatti; quando i fatti le confermano, allora sono carne e sangue.

Mameli era davvero pronto alla morte; infatti morì, a ventuno anni, nella difesa di Roma, confortato da Cristina Trivulzio di Belgioioso, altra grande italiana. Non fu ferito dai francesi ma da un commiliton­e, si obietta. A parte il fatto che non è per nulla certo, cosa cambierebb­e? Forse che i fanti morti di tifo o di febbre spagnola nella Grande Guerra e gli alpini congelati in Albania e in Russia meritano meno la nostra pietà e la nostra riconoscen­za dei caduti in combattime­nto? Si sostiene che abbia «rubato» le parole a un religioso, padre Atanasio Canata. E se anche fosse? «Il sangue gli appartiene» direbbe Cyrano. Il punto è che il Risorgimen­to, di cui Mameli fu volontario e spirito libero, è molto denigrato in un tempo di autocommis­erazione nazionale, alimentata dalla Rete. Eppure, goccia a goccia, l’inno di Mameli — musicato da Novaro — è penetrato nell’animo della nazione. Ciampi ha fatto molto per questo. Persino i calciatori l’hanno imparato (anche se continuano a dire «corte» invece di coorte). Si è finalmente capito quel che appariva già chiaro, che «schiava di Roma» non è l’Italia ma la vittoria. E si comincia a cantare anche la seconda strofa: «Noi siamo da secoli calpesti e derisi perché non siam popolo, perché siam divisi». C’è voluto oltre un secolo e mezzo; ma è sempre meno vero.

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La copertina L’edizione del 1860 del «Canto degli Italiani» di Goffredo Mameli

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