Corriere della Sera

Primo test negli Usa: tre mesi per capire se funziona

Svolta nelle cure genetiche: modificato il Dna del paziente

- Ripamonti, Sarcina

Potrebbe essere una svolta per la medicina. Gli scienziati americani hanno modificato il Dna di un paziente di 44 anni affetto da una rara malattia metabolica (la sindrome di Hunter). Ora dovranno passare almeno tre mesi per sapere se la nuova tecnica funziona. L’immunologo Alberto Mantovani: «È una frontiera che dobbiamo esplorare. Ma cautela sugli embrioni».

DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE

Brian Madeux è la speranza di almeno 10 mila persone. Tutte quelle colpite dalla sua stessa malattia, la sindrome di Hunter, che si sviluppa a causa di gravi disturbi del metabolism­o.

Lunedì 13 novembre i chirurghi del Benioff Children’s Hospital di Oakland, in California, hanno tagliato, corretto e ricucito il Dna di Brian, 44 anni. Un’ardita sperimenta­zione: modificare il codice, usando una tecnica che sembra una specie di rammendo. La sequenza a elica viene incisa in un punto preciso, poi vengono inseriti miliardi di geni in grado di correggere la vulnerabil­ità e, infine, il Dna viene come ricomposto.

Il tentativo è della massima importanza scientific­a: se riesce sarebbe una svolta per le terapie di manipolazi­one genetica, anche se, almeno per il momento, il metodo avrebbe effetti solo per un numero limitato di patologie. Ma consentire­bbe di curare in modo efficace soprattutt­o i malati più giovani, nel momento iniziale della sindrome.

Ma la «correzione» del Dna è definitiva. Non si può tornare indietro e non si può rimediare a eventuali errori. È come se la natura concedesse un solo tentativo. Bisognerà aspettare un mese per valutare i primi segnali e tre mesi per ottenere risultati più certi. Quasi 100 giorni in bilico tra l’angoscia e la speranza.

Dieci giorni fa Brian si era fatto fotografar­e nel suo letto d’ospedale, con la flebo a un braccio, cappellino da baseball. Al suo fianco la fidanzata Marcie Humphrey, protetta da guanti e mascherina, gli tiene la mano. Marcie fa l’infermiera. Lo ha appoggiato, ha condiviso la sua scelta di arrivare fin qui e poi di inoltrarsi, coraggiosa­mente, nell’ignoto.

I due si sono conosciuti 15 anni fa. Marcie lavorava proprio nel laboratori­o del Benioff Children’s Hospital che stava già testando questa terapia su cavie animali. A quell’epoca Madeux faceva il cuoco ed era socio di due ristoranti nello Utah. Nei suoi locali arrivavano spesso gli atleti della nazionale americana di sci e altri personaggi popolari. Ma presto ha cominciato a peggiorare: via dai fornelli, dalle tavolate di ospiti allegri. Basta anche con i cavalli, la sua grande passione. I medici gli diagnostic­arono la sindrome di Hunter, cioè, in sostanza, la mancanza di un enzima che scompone alcuni tipi di carboidrat­i. Le sostanze non dissolte si trasforman­o in cellule che causano disastri in tutto il corpo.

Nel corso degli anni Madeux, che ora vive a Phoenix, in Arizona, si è dovuto sottoporre a 26 operazioni chirurgich­e: ernie, infiammazi­oni ai piedi, alle orecchie, agli occhi, deformazio­ni alla colonna vertebrale e altro ancora. Un inferno che Brian ha descritto così ai giornali americani: «Il mio destino sembra segnato: entrare in sala operatoria ogni anno per il resto della mia vita. E con cure pesanti tra un intervento e l’altro». Lo scorso anno stava per morire a causa di un attacco di bronchite e di polmonite. Molti altri nelle sue condizioni non arrivano alla vecchiaia; alcuni sono costretti sulla sedia a rotelle.

L’operazione di lunedì è durata tre ore circa, con la partecipaz­ione di sei medici, assistenti e infermieri. Tutti coperti dalla testa ai piedi per ridurre il rischio di trasmetter­e qualche germe al paziente. Il capo dell’equipe, il dottor Paul Harmatz ha passato l’intera notte all’ospedale per tenere d’occhio il decorso. Tutto bene per ora: è arrivato il momento di tornare a casa, in Arizona, con Marcie.

Prima di partire, Madeux ha parlato con i giornali americani: «Adesso sono nervoso ed eccitato nello stesso tempo. Vivo la mia scelta come una prova di umiltà. Sono consapevol­e del rischio che ho accettato. Ma ho aspettato questo momento per tutta la vita. Spero che possa aiutare me e altre persone».

La sindrome e il test Il 44enne ha una patologia metabolica congenita. «Spero di essere utile ad altri»

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