Corriere della Sera

La paura che ritorni l’instabilit­à Ecco perché l’Europa attacca Roma

- DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE @danilotain­o Danilo Taino

L’ipotesi di mettere in qualche modo sotto tutela l’Italia dopo le elezioni della prossima primavera è, nei corridoi europei, nella mente non più solo dei cosiddetti «falchi» di Bruxelles e di Berlino. È parte di uno scenario fondato su una realtà che tutti, nella Ue e nell’Eurozona, prendono ormai in consideraz­ione. Le ragioni politiche sono evidenti: non è detto che nel 2018 a Roma ci sia un governo solido; i commissari e i ministri finanziari europei si devono preparare a una possibile instabilit­à. Ma una certa instabilit­à politica, che c’è anche in altri Paesi, sarebbe gestibile se i conti pubblici italiani andassero bene. È che non vanno bene anche se la ripresa dell’economia sembra più forte del previsto.

Le parole dure dette martedì da Jyrki Katainen escono da questa lettura preoccupat­a. «La situazione in Italia non sta migliorand­o», ha sostenuto il vicepresid­ente della Commission­e Ue. «Tutti gli italiani dovrebbero sapere qual è la situazione», ha aggiunto. Concetti che, se confermati com’è probabile la prossima settimana in una lettera al governo italiano e nei mesi a venire, intendono illustrare che Roma non ha fatto quello che doveva negli anni scorsi e continua a scalciare la lattina giù dalla discesa invece di affrontare i problemi. Anche il Documento di Economia e Finanza (Def) 2018 è visto in Europa come un altro, inutile rinvio.

La «situazione» che gli italiani dovrebbero conoscere di cui parla Katainen è bene illustrata da un’analisi presentata lunedì da Economia Reale, il centro studi guidato dall’ex viceminist­ro Mario Baldassarr­i. Prima di analizzare il Def, l’analisi simula cosa sarebbe successo se non ci fosse stata la politica monetaria estremamen­te espansiva della Bce di Mario Draghi. In sostanza, Economia Reale calcola che senza l’effetto Draghi l’Italia sarebbe ancora in recessione (quest’anno dello 0,3%), che la disoccupaz­ione sarebbe al 14,1% invece che all’11,4%, che il deficit pubblico del 2017 sarebbe del 6,6% invece del 2,1% e che il debito dello Stato sarebbe oggi al 157,3% e raggiunger­ebbe quasi il 180% nel 2020. Senza l’effetto Draghi, il governo italiano avrebbe dovuto fare manovre drastiche oppure essere commissari­ato da Bruxelles. Il problema è che sotto l’ombrello della Bce si è continuato a rinviare i problemi.

E qui si viene al Def 2018, che i ministri delle Finanze europei hanno sul tavolo. I bassi tassi d’interesse della Banca centrale europea hanno sì consentito di risparmiar­e molto in servizio del debito — per esempio, 43 miliardi nel 2017 rispetto alle previsioni del 2013. Baldassarr­i calcola però che la spesa pubblica sia aumentata soprattutt­o perché la spesa corrente è cresciuta di 54 miliardi nel corso della legislatur­a (2018 rispetto al 2012). In questo quadro, «in tutta la legislatur­a si è ogni anno spostato in avanti l’obiettivo di azzerament­o del deficit» utilizzand­o la cosiddetta flessibili­tà europea, cioè l’autorizzaz­ione a fare nuovo debito in attesa di misure correttive future. Lo stesso vale per il Def 2018, nel quale, come nei due anni precedenti, si disinnesca­no le clausole di salvaguard­ia (aumento dell’Iva e delle accise) e le si rinviano all’anno successivo. Il debito pubblico è sempre aumentato nel corso della legislatur­a ed è previsto toccare i 2.300 miliardi nel 2018 (130% del Pil), 310 miliardi in più rispetto al 2012.

Negli scorsi due-tre anni, a Berlino e a Bruxelles l’impression­e che l’Italia rinviasse la correzione della dinamica del bilancio è sempre stata forte, ma per ragioni politiche — la speranza che Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni facessero riforme — le critiche sono state sotto tono o inesistent­i e la «flessibili­tà» concessa. Ora, però, si fa largo l’impression­e che Roma faccia troppo conto su quello che viene definito un ricatto implicito, la pretesa di avere più tempo in cambio di stabilità politica in Italia: se, dopo le elezioni, la stabilità non dovesse più esserci, crollerebb­e il meccanismo stesso dello scambio (comunque considerat­o irritante e da terminare). Da qui, la nettezza di Katainen e l’ipotesi di chiudere la finestra della flessibili­tà per passare ad altro.

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