Un viaggio tra gogna e impunità
Nella repubblica giudiziaria è assente madama giustizia. Al massimo del clamore per un avviso di garanzia corrisponde la massima probabilità di svanire «nelle more di dibattimenti senza fine», mentre gli autentici processi «si celebrano sulle pagine dei giornali». Talché falso e vero divengono inestricabili agli occhi dei cittadini e l’unica pena certa diventa appunto l’umiliazione mediatica, naturalmente preventiva, alla faccia della presunta innocenza. È un libro di ossimori e paradossi Fino a prova contraria di Annalisa Chirico, giornalista del Foglio: «Gogna e impunità marciano unite», scrive infatti lei che, a dispetto dell’età (è poco più che trentenne), ci accompagna in un viaggio dentro una storia antica, tra la nascita del giustizialismo e il «populismo penale», il crollo dei partiti, il disperato aggrapparsi di una politica «inetta e screditata» a un gancio togato che la legittimi, sino all’oggi, Tempa Rossa e Consip, echi di un’Italia vecchia che tira a fondo quella nuova, risorse che diventano anomalie in un carosello di reciproco discredito. «Siamo l’unico Paese al mondo dove ben due magistrati hanno fondato un partito per candidarsi alla guida dell’esecutivo e un magistrato in aspettativa pretende di candidarsi, e si candida, alla guida di un partito», scrive la Chirico tratteggiando, senza nominarli, i profili di Tonino Di Pietro, Antonio Ingroia e Michele Emiliano. «Siamo l’unico Paese al mondo dove una corrente organizzata di magistrati scende in campo per contrastare, con comizi e pubbliche assemblee, un referendum promosso dal governo in carica», aggiunge, riferendosi al pronunciamento di esponenti di punta di Magistratura Democratica contro la riforma bocciata il 4 dicembre. È un libro su certa giustizia, dunque, ma non è affatto un libro contro le toghe (tra i primi a ravvisare il rischio che i magistrati, sentendosi investiti dal popolo, potessero munirsi di «spada fiammeggiante» per cacciare «i reprobi all’inferno» si cita un galantuomo spesso impropriamente ascritto al giustizialismo come Saverio Borrelli). È un libro che non fa sconti a Md, la corrente «rossa» che nel 1971 teorizzava la giustizia di classe, e tuttavia le rende il merito d’essere stata «fucina di elaborazione culturale», antesignana nel garantismo. In definitiva, è il libro di una giovane italiana che, innamorata della «politica come missione», ne sogna ancora il primato. Magari in un’Italia meno faziosa e paradossale, che sappia separare le «carriere di magistrati e giornalisti» (sic) e rammenti le parole di Giovanni Falcone: «La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, ma del khomeinismo».