Corriere della Sera

L’arte d’essere italiani. A Parigi I fratelli de Chirico e Modigliani, Campigli e Severini intercetta­rono il nuovo. E la Francia li volle

- Di Roberta Scorranese rscorranes­e@corriere.it

Constantin Brâncusi ci arrivò a piedi: lo scultore rumeno camminò da Bucarest a Parigi per due mesi e quando giunse in città, il 14 luglio del 1904, la folla lo accolse in festa. Nell’estate di sette anni dopo arriverà anche Giorgio de Chirico, ma in treno e sudaticcio. In quello stesso anno, il 1911, giunse a Parigi il figlio numero dieci di un artigiano del ghetto di Vilnius: si chiamava Chaïm Soutine e lo stomaco «gli tirava» per la fame. Sensazione molto familiare a un livornese che si trovava lì dal 1906 e che rispondeva al nome di Amedeo Modigliani.

Si potrebbe dire che parte dell’arte moderna nacque a Parigi, nei primi decenni del Novecento, tra fame, oppio, vino e una festa mobile che ogni sera si snodava tra bistrot, caffé e locali leggendari come il Lapin Agile — un posto dove l’oste, un certo Frédé, barattava le consumazio­ni con i quadri. E in questa festa gli italiani si ricavarono un posto di primo piano, sia pure con vite e linguaggi diversi. Dai fratelli de Chirico a Modigliani, da René Paresce a Gino Severini e Massimo Campigli, «les Italiens» si imposero in quella città gravitante intorno a Montmartre e a Montparnas­se con una sensibilit­à nutrita del giusto senso del passato.

La tesi di Rachele Ferrario, storica dell’arte e autrice di Les Italiens, volume che racconta quell’epopea, è precisa: «Solo una cultura antica, ricca e frammentat­a come quella italiana poteva intercetta­re l’indagine introspett­iva degli artisti del nuovo secolo e le loro tensioni etiche, politiche ed estetiche». Già, perché furono proprio gli italiani a dare vita a due correnti tra le più rilevanti: la metafisica e il futurismo. E furono les Italiens (che si riuniranno in una mostra nel 1928) a segnare il passo della cultura europea e a influenzar­e le avanguardi­e, sia pure in un Paese, la Francia, all’epoca tutt’altro che indulgente nei confronti dei «metechi», come venivano chiamati gli immigrati dal sud e dall’est del mondo.

L’Assemblea nazionale infatti discusse a lungo sull’opportunit­à di sostenere mostre «antitradiz­ionali e antinazion­ali». E stiamo parlando di Picasso, Chagall, Modigliani. Anzi, Modigliani fu un caso a parte, come analizza Ferrario (in un volume ricco di fonti, citazioni e dotato di un interessan­te apparato iconografi­co): la francesizz­azione dell’artista, a cominciare dal nome, Modì, fu un percorso ondeggiant­e tra l’assimilazi­one e il respingime­nto. Ma Modigliani era un predestina­to, come aveva capito Picasso. E così, grasonalis­sima zie a quell’istinto alla «nazionaliz­zazione» così radicato nei francesi, c’era spesso qualcuno che si prendeva cura di lui: a sfamarlo era un’ostessa di nome Rosalie Tobia. Perché in quegli anni si sveniva per la fame: un giorno Gino Severini stava dipingendo all’aperto la neve che cade e solo un grog caldo offertogli dalla collega Suzanne Valadon lo salvò dall’assiderame­nto. Ma Severini seguì una strada ancora diversa: sposò Jeanne Fort, figlia di un poeta molto influente e si allontanò dalle intemperan­ze dei futuristi. Che a Parigi ripetevano il copione (stanco e un po’ provincial­e) delle incursioni nei teatri milanesi, tra risse, violenza verbale e bizzarrie.

Eppure i francesi più raffinati capivano il valore degli italiani. Lo stesso fecero poeti quali Guillaume Apollinair­e, che scrisse: «Italie/ Toi notre mère et notre fille quelque/ Chose comme une soeur» (Italia/Tu nostra madre e nostra figlia/qualcosa come una sorella). Una sorellanza certo non condivisa dai connaziona­li impermeabi­li alla raffinatez­za di pittori come, per esempio, Renato Paresce, fisico di formazione, divenuto artista proprio a Parigi e protagonis­ta chiave della mostra che «accompagna» questo libro: nel Museo e nell’oratorio di Santa Maria della Vita di Bologna, infatti, dal 7 dicembre, l’esposizion­e curata da Ferrario e intitolata René Paresce. Italiani a Parigi. Campigli, de Chirico, de Pisis, Savinio, Severini, Tozzi completa questo viaggio nel tempo, alla ricerca di un’epoca in cui l’Italia si impose in un Paese culturalme­nte fertile e nel quale la rivoluzion­e estetica la fecero gli «immigrati».

Scorrendo le pagine e osservando le opere in mostra, alcuni aspetti cruciali affiorano subito. Intanto, gli artisti prendono strade individual­i. C’è Severini che a un certo punto contesta le avanguardi­e e, scrive Ferrario, «sente come un punto di forza» il suo essere meteco. C’è Mario Tozzi, infaticabi­le attivista «della propaganda dell’arte moderna italiana». C’è il raffinato Campigli, che di giorno dipinge e di notte scrive corrispond­enze per il «Corriere della Sera» e che seguirà una per- ricerca nell’enigma della cultura arcaica. C’è Modigliani che brucerà in uno splendore ineluttabi­le e disperato e c’è de Pisis, al quale spetterà il destino più bizzarro: miglior interprete della Scuola di Parigi, finirà per piacerà agli italiani di Strapaese, quelli più integralis­ti. Mentre a Giorgio de Chirico (uno dei Dioscuri, insieme al fratello, Alberto Savinio) toccherà un’altra sorte: l’ironia di Roberto Longhi che per lui scrisse il capolavoro di demolizion­e critica Al dio ortopedico.

La conclusion­e è inevitabil­e e malinconic­a. Privi di un caposcuola (come poteva essere Picasso) non tutti gli Italiens sviluppano uno spirito unitario, compatto. I futuristi, per dire, si piegano al cubismo, e, se attaccati, scrive Ferrario, confermano «uno dei nostri peggiori vizi nazionali: anziché restare uniti, si sfaldano». I nazionalis­mi e la guerra faranno il resto. Eppure, è da questo periodo che prende le mosse una consapevol­ezza sempre più tangibile della cultura come fondazione di una civiltà. Quella stessa che, nel Dopoguerra, spinse uomini e donne in Italia a rischiare la vita per mettere al sicuro le opere d’arte.

I «metechi» Solo una cultura «antica, ricca e frammentat­a» come la nostra poteva cogliere lo spirito dei tempi e certa vivacità

 ??  ?? Filippo de Pisis (Ferrara, 11 maggio 1896 -Milano, 2 aprile 1956), Ponte sulla Senna (1937 olio su tela, particolar­e, collezione privata)
Filippo de Pisis (Ferrara, 11 maggio 1896 -Milano, 2 aprile 1956), Ponte sulla Senna (1937 olio su tela, particolar­e, collezione privata)

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