Il manierismo (poco raffinato) di Sciarrino L’
ultima opera del fitto catalogo teatrale di Salvatore Sciarrino debutta alla Scala con un certo successo: applausi tiepidi, ma comunque applausi. Si intitola Ti vedo, ti sento, mi perdo e si basa su un libretto che lo stesso compositore ha creato collazionando fonti molto dotte (Ovidio, Rilke e varie altre cose) e che dà vita a una drammaturgia al limite di un intellettualismo forse più stucchevole che raffinato. È incentrata sulla vita e sull’arte avventurose del musicista del ‘600 Alessandro Stradella, che dell’opera è protagonista in absentia, e le ripercorre, spesso citandone i modi d’essere, come metafora del potere seduttivo della musica. Si avvale peraltro, lo spettacolo, di un signor direttore, Maxime Pascal, di un signor regista, Jürgen Flimm, e di un ottimo cast, che vede in Laura Aikin una splendida primadonna.
«La musica incontra il corpo. Tocca e accarezza. Brividi, penetra»: così proclama il libretto sciarriniano. La sua musica però non rivela queste qualità. Manca proprio di fisicità, di corpo. Con le sue microvariazioni di microcellule ritmiche e melodiche, i suoi soffi, i suoi trilli e glissandi, sfiora tutto senza afferrare nulla. Vola impalpabile. E ha, sia pure con alcune varianti, lo stesso lessico che il pubblico di Sciarrino ascolta da 40 anni: rivoluzionaria per davvero al suo apparire, manieristica oggi. Come se l’autore fosse ormai epigono di se stesso. D’altra parte circola tantissimo, ovunque. E quindi ha ragione lui a riproporla instancabilmente. A dire il vero, nessuno gli chiede di intraprendere una nuova strada. Magari una «stradella».