Corriere della Sera

«IMBULLONAT­I» ALLA POLTRONA PERCHÉ NON SI DIMETTONO MAI

- Di Gian Antonio Stella

Perché mai dimettersi per una banale «catastrofe» (parole tavecchian­e) che non accadeva da sessant’anni? Per carità, i due sono in buona compagnia. L’Italia non abbonda, da Luigi Cadorna a Francesco Schettino, di uomini disposti ad assumersi dignitosam­ente le proprie responsabi­lità. Più facile trovare quelli che se ne infischian­o. E magari ci ridono sopra. Il più spiritoso, in un’intervista a Piero Chiambrett­i, fu Francesco Cossiga. «Come devo chiamarla, Presidente? Perché lei si dimette continuame­nte?», chiese il conduttore. «Io non mi dimetto. Minaccio», rispose quello, «Mi deve chiamare Presidente Incombente. Anzi mi chiami sempliceme­nte Incombente».

Tesi inconcepib­ile per statisti di stampo austrounga­rico come Alcide de Gasperi («Le dimissioni non si preannunci­ano: si danno») ma piuttosto praticata da quelli di stirpe montecitor­ia. Più portati tuttavia, come ricordò qualche anno fa Filippo Ceccarelli, per la tattica di «quel personaggi­o di Achille Campanile, Celestino, ingombrant­e e inopportun­o ospite della famiglia Gentilissi­mi, che gliene combinava di tutti i colori, ma al dunque concludeva ogni sua avventura con un eloquente: “E allora resto”». E, loro, restano. Restano sempre.

Restò per mesi e mesi imbullonat­o alla poltrona di ministro dell’Interno, tra mille polemiche, Antonio Gava, il «viceré di Napoli» che Giorgio Bocca aveva soprannomi­nato «Don Antonio ’a Fetenzìa» e che alla fine mollò a causa di un coma diabetico al quale attribuì, per non darla vinta agli avversari, la causa del forzato abbandono: «Mi sono dimesso perché me l’ha chiesto Nostro Signore». Un sacrificio che non venne chiesto, meno male, ad Annamaria Cancellier­i, messa al Viminale da Mario Monti e bombardata da richieste di dimissioni per i suoi rapporti di amicizia di lunga data con Antonino Ligresti, all’epoca coinvolto in pesanti inchieste giudiziari­e. «Non mi dimetto» disse. E la mozione di sfiducia individual­e con l’accusa di «favoritism­i» presentata dai grillini fu respinta.

Una vittoria mancata, anni prima, da Filippo Mancuso, il ministro della Giustizia del governo Dini che per l’eloquio un po’ rococò («L’italia è una malata in forma ingravesce­nte») si prestava alle ironie di un po’ tutti i corsivisti ed era corto un metro e 59 centimetri ma aveva resistito impavido come un gigante a tutto e tutti, come Davy Crockett a Fort Alamo finché, appunto, non era stato abbattuto da quella mozione di sfiducia dedicata a lui.

Ma come dimenticar­e l’accanita resistenza alle dimissioni dell’ex governator­e della Banca d’Italia Antonio Fazio? Messo sotto accusa per una serie di scelte assai contestate, come il rapporto anomalo con banchieri tipo Giampiero Fiorani della Popolare di Lodi, così intimi da sfociare nel famoso «bacio in fronte» vagheggiat­o il giorno del via libera all’offerta pubblica su Antonvenet­a, il predecesso­re di Visco riuscì a tener duro per mesi. Malgrado le figuracce in tivù (ricordate lo spintone delle guardie del corpo a Valerio Staffelli di «Striscia» o il Gabibbo che strimpella­va «Coco-come una cozza attaccato sta/ e chi lo schioderà?») e l’ostilità di un po’ tutti a partire da Giulio Tremonti. Il quale per ricordare quelle che considerav­a le malefatte del governator­e mostrava a tutti, sulla sua scrivania, il personale portapenne: un barattolo di pelati Cirio.

E Antonio Di Pietro? Le sue sì, quando si tolse la toga da giudice, furono dimissioni. Spettacola­ri. Per sette volte strillò nella lettera d’addio: «Basta. Basta. Basta. Basta. Basta. Basta. Basta». Poi: «Tolgo il disturbo e non risponderò ad alcuna provocazio­ne. Buon futuro. Antonio Di Pietro». Finì con un post scriptum: «Prego vivamente di non propormi alcun invito al ripensamen­to perché le mie dimissioni sono irrevocabi­li, come testimonia questa mia doppia firma. Antonio Di Pietro». Repetita iuvant. Viatico perfetto per quanti si dimettono per ricomincia­re. E Matteo Renzi non è certo il primo.

Forse nessuno però ha resistito quanto Gianfranco Fini, incollatos­i alla presidenza della Camera dopo lo scoppio devastante dello scandalo della casa a Montecarlo lasciata in eredità ad An dalla contessa Anna Maria Colleoni e finita a Giancarlo, il fratello minore della compagna Elisabetta Tulliani. Indimentic­abile, tra gli insulti e gli inviti a dimettersi, respinti per quasi tre anni, il contrattac­co: «Contro la mia famiglia c’è stata una campagna che ha assunto i toni di una lapidazion­e di tipo islamico».

Non meno indimentic­abile, tuttavia, resta la cocciuta resistenza alla guida della commission­e Cultura di Giancarlo Galan. Rimasto al suo posto anche dopo aver patteggiat­o nel processo seguito all’inchiesta sul Mose due anni e 10 mesi di galera e la confisca di oltre due milioni e mezzo di euro e addirittur­a dopo essere finito in carcere e poi ai domiciliar­i. La legge non prevedeva la rimozione forzata. E lui:«Allora resto».

Peccato che la legislatur­a stia avviandosi verso la fine, sennò potrebbe battere il suo record di combattivi­tà Altero Matteoli, condannato a metà settembre, sempre per lo scandalo Mose, a quattro anni di reclusione più nove milioni e mezzo di euro (abbondanti) per corruzione. Sono passati due mesi, da allora. Eppure l’ex ministro alle Infrastrut­ture è ancora lì, alla presidenza della commission­e Lavori pubblici del Senato. Che aspetti anche lui di essere salvato, come l’inamovibil­e Tavecchio, da un miracoloso accordo con Carletto Ancelotti?

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