Torino, il Corriere Una storia nuova
IN EDICOLA DA VENERDÌ
Quando nasci a Torino, cresci con l’idea che i torinesi inventano le cose — la moda, la pubblicità, l’editoria —, finché arrivano i milanesi e se le portano via. Lo sbarco del Corriere sotto la Mole ribalta il luogo comune. Stavolta sono i milanesi a portare a Torino qualcosa che hanno inventato loro: il giornale di Albertini e Barzini, Montale e Buzzati, Biagi e Montanelli, Fallaci e Terzani.
SEGUE DALLA PRIMA
Non si tratta di un’invasione, semmai di un’integrazione. Il Corriere è la voce delle regioni più intraprendenti d’Italia. Ha la testa a Milano, un braccio possente nel Triveneto e il cuore un po’ dappertutto. Ma senza Torino era come se gli mancasse un pezzo. Adesso, grazie ai nuovi lettori piemontesi, sarà finalmente un organismo completo. Molti di loro mi hanno ripetuto per mesi: vi leggerei tanto volentieri, ma manca la cronaca locale e quindi «ai son (pronuncia sun) nen i mort», non ci sono i morti.
Non fraintendeteli. Come a ogni altro lettore, anche a quelli sabaudi interessano le inchieste giornalistiche sui temi caldi della loro città e le campagne di stampa in cui il giornale si schiera dalla parte dei cittadini per aiutarli a risolvere un problema, insistendovi per giorni-settimane-mesi, fino allo sfinimento e possibilmente al raggiungimento dell’obiettivo. E la nuova realtà editoriale — Stampa e Repubblica da una parte, Corriere dall’altra — ha nella sua chiarezza la migliore garanzia di una concorrenza sana sulle notizie. Però è vero che a Torino più che altrove esiste un’attenzione speciale per i defunti. Forse è l’unica città del pianeta dove per strada e sugli autobus si stagliano le affissioni delle pompe funebri, in un tripudio di ali luminose e cieli stellati. A Napoli sarebbe impensabile. Per farsi apprezzare dai torinesi bisognerà dunque occuparsi anche dei morti. Senza però dimenticarsi dei vivi.
Dopo l’apoteosi dei Giochi invernali del 2006, quando Torino scoprì la sua vocazione turistica e addirittura gaudente, la città attraversa uno dei suoi periodici momenti di depressione. Ha un urgente bisogno di nuove sfide per interrompere il suo passatempo preferito — lamentarsi — e tornare a esprimere il suo talento migliore: creare. Come tutti i popoli montanari, i torinesi si smarriscono negli spazi aperti. Ma date loro un passaggio stretto e sapranno trovare un modo per attraversarlo a cui non aveva ancora pensato nessuno. La speranza è che l’arrivo del Corriere e dei suoi nuovi giornalisti, talmente bravi che ad alcuni di loro il mio cuore granata riesce a perdonare persino di essere juventini, coincida con il secondo tempo della rimonta avviata con le Olimpiadi.
C’è da sempre un equivoco sui torinesi e ha a che fare con l’appellativo di «bögianen» che è stato loro appiccicato addosso e che potremmo tradurre approssimativamente con «immobili». Senza farla troppo lunga con i riferimenti storici, esistono due modi di restare fermi: quello di chi non esplora e quello di chi non scappa. Ecco, il torinese è un «bögianen» nel senso che non scappa. Messo di fronte al nuovo borbotta, cincischia, tentenna. Ma appena ci entra dentro, se ne innamora e non lo lascia più. Se non ai milanesi, naturalmente. Che in questo caso, però, trattandosi del Corriere, saranno ben lieti di condividerlo.