Corriere della Sera

Il boss, l’anatema e i nuovi delfini

Uccidere il magistrato Di Matteo è l’ultimo ordine del capo dei capi e rimane «certamente operativo» Resta il nodo dell’eredità al vertice

- di Giovanni Bianconi

ROMA Uno degli ultimi desideri espressi da Totò Riina è stato recepito dai mafiosi come un ordine, ancora vigente: l’omicidio del pubblico ministero Nino Di Matteo. Per i magistrati che hanno indagato a fondo sui propositi di attentato nei suoi confronti, «il progetto di uccidere il dr. Di Matteo è certamente operativo per gli uomini di Cosa nostra». Ne ha parlato, tre anni fa, il pentito Vincenzo Galatolo, e gli inquirenti di Caltanisse­tta (competenti per i procedimen­ti che coinvolgon­o i loro colleghi palermitan­i) hanno espresso su quelle dichiarazi­oni «un giudizio di sostanzial­e attendibil­ità». In particolar­e, affermano, «deve ritenersi provata l’esistenza di un progetto criminoso teso all’eliminazio­ne del dr. Di Matteo, magistrato da sempre impegnato sul fronte antimafia, da ultimo protagonis­ta delle indagini sulla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia ai tempi delle vicende stragiste dei primi anni Novanta».

Minacce dal carcere

È scritto nella richiesta di archiviazi­one dell’inchiesta per tentato omicidio a carico di otto mafiosi (tra cui lo stesso Galatolo e il latitante Matteo Messina Denaro) accolta dal giudice qualche mese fa. Il processo non ci sarà perché il progetto non ha «oggettivam­ente superato la soglia della fase preparator­ia»; la ricostruzi­one del pentito risulta «in alcuni punti lacunosa», e contiene delle «contraddiz­ioni non facilmente superabili alla luce delle sue conoscenze». L’esplosivo che avrebbe dovuto essere utilizzato non è stato trovato, né ci sono prove del suo acquisto.

Dunque il fascicolo va in archivio, ma nel dare conto degli accertamen­ti svolti il pool di Caltanisse­tta al completo — il procurator­e Amedeo Bertone, gli aggiunti Lia Sava e Gabriele Paci, il sostituto Sergio Luciani — ribadisce il peso del ruolo ricoperto da Totò Riina finché è rimasto in vita. E fornisce spunti utili a capire come Cosa nostra è stata governata negli ultimi anni, e come potrà riorganizz­arsi dopo la morte del capo corleonese.

Sulle minacce a Di Matteo, che oggi è in servizio alla Procura

A Caltanisse­tta L’ultima inchiesta sull’attentato è stata archiviata ma «il progetto è provato»

nazionale antimafia e si appresta a pronunciar­e la requisitor­ia finale nel processo palermitan­o sulla trattativa, i pm ricordano le rivelazion­i di altri pentiti che fanno risalire l’intenzione di ucciderlo al 2007. Infine ricordano, «non ultime per importanza», le intercetta­zioni in carcere in cui «Riina Salvatore, commentand­o le udienze del processo trattativa, manifestav­a a più riprese l’astio nutrito nei confronti del dr. Di Matteo, in un crescendo che sfociava nella manifesta intenzione di ucciderlo facendogli fare “la fine del giudice Falcone”».

Nuove regole

È stato proprio Galatolo a spiegare che quando le registrazi­oni divennero di pubblico dominio, «la nostra opinione fu che il Riina, il quale non poteva ignorare di essere intercetta­to, avesse utilizzato quella modalità per mandare messaggi all’esterno». Nel suo racconto la «sollecitaz­ione» era venuta, a dicembre 2012, da Matteo Messina Denaro, che tramite il messaggero fidato Girolamo Biondino (fratello di Salvatore, arrestato con Riina nel 1993) aveva chiesto di uccidere Di Matteo perché con le sue indagini «stava andando oltre». In una lettera il latitante avrebbe «giustifica­to la sua assenza poiché non era in Sicilia», e questo è un dettaglio non secondario: per un capomafia è difficile mantenere il comando lontano dall’isola, e se la situazione fosse ancora questa per gli investigat­ori è pressoché impensabil­e che ora possa prendere il posto di Riina. Come pure il fratello di suo cognato, Giuseppe Guttadauro, già boss del quartiere Brancaccio che dopo la scarcerazi­one per fine pena vive stabilment­e a Roma.

Nello stesso messaggio, il latitante suggeriva nuove regole per il funzioname­nto di Cosa nostra: «Le famiglie dovevano ristruttur­are i mandamenti, e in particolar­e i nuovi capi mandamento potevano decidere autonomame­nte su fatti anche omicidiari, anche se il titolare era vivo ma detenuto».

«Cupola ristretta»

Sulla lettera di Messina Denaro i pm conservano qualche dubbio, mentre è stata riscontrat­a la riunione svoltasi nel centro di Palermo: «Una sorta di “cupola” ristretta — scrivono i pm — composta dai capi mandamenti di Resuttana, San Lorenzo e Porta Nuova». Secondo il pentito «la Cosa nostra palermitan­a» (rappresent­ata in quell’occasione da lui, Biondino e altri due) era contraria all’attentato per via delle «inevitabil­i conseguenz­e della reazione dello Stato»; tuttavia pensarono ci fosse la «copertura» di Riina, poi confermata dalle conversazi­oni intercetta­te in prigione. Con la morte del padrino anche questa situazione è mutata, forse aprendo la strada del comando al nipote Giovanni Grizzaffi, tornato a Corleone dopo oltre vent’anni di galera. Ma sono solo ipotesi. Inquirenti e investigat­ori non hanno certezze sulla succession­e al vertice di Cosa nostra, mentre l’ordine di colpire Di Matteo «resta operativo».

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