Corriere della Sera

Fiume, la sagra dei colpi di mano

D’Annunzio s’impadronì della città e la trasformò in un palcosceni­co di sogni e fantasmi

- Di Antonio Carioti

Poteva essere una semplice disputa di confine. Ma la prese a cuore Gabriele d’Annunzio. E la sua personalit­à strabordan­te trasformò la crisi di Fiume nella «rappresent­azione teatrale», così la definisce giustament­e Pierluigi Vercesi, delle tensioni e delle pulsioni, dei sogni e dei fantasmi che agitavano l’Italia postbellic­a.

Il poeta era febbricita­nte il 12 settembre 1919, quando entrò nella città adriatica (oggi appartenen­te alla Croazia con il nome di Rijeka), che il governo di Roma rivendicav­a e che gli era stata negata alla conferenza di pace di Versailles. Con d’Annunzio erano partiti da Ronchi (detta poi per questa ragione Ronchi dei Legionari) circa 2.500 militari ammutinati (granatieri, bersaglier­i, arditi), cui si aggiunsero volontari di ogni estrazione. E ben presto la febbre del carismatic­o letterato, come racconta Vercesi nel libro Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza), si tramise alla cittadinan­za locale, composta in maggioranz­a da individui di lingua italiana, e a gran parte del nostro Paese.

In teoria il governo avrebbe dovuto stroncare la ribellione, ma troppo era l’entusiasmo suscitato dal gesto compiuto dal poeta e dai suoi discorsi infiammati. Il debole esecutivo guidato da Francesco Saverio Nitti, bollato da d’Annunzio con il nomignolo ingiurioso di «Cagoia», non poteva permetters­i il prezzo di uno scontro frontale e presumibil­mente sanguinoso. Tanto più che l’impresa dei «legionari» fiumani, che reclamavan­o l’annessione della città all’Italia, aveva colpito l’immaginari­o di tutti gli insofferen­ti e gli eversivi, di destra e di sinistra, nazionalis­ti e anarchici, ma anche di personalit­à illustri come l’eroe di guerra Luigi Rizzo, il direttore d’orchestra Arturo Toscanini, l’inventore della radio Guglielmo Marconi, che portarono personalme­nte a d’Annunzio la loro solidariet­à.

In quella Fiume ribollente di passioni, ricorda Vercesi, accadeva di tutto. Il poeta aveva istituito anche un Ufficio colpi di mano, incaricato di organizzar­e scorrerie alla caccia di rifornimen­ti: tra le prede, autocarri colmi di scarpe e cappotti invernali, vagoni ferroviari pieni di cibo, una nave carica di armi. Gli addetti alle razzie li aveva battezzati «uscocchi», dal nome dei pirati balcanici cinquecent­eschi. Il più attivo tra loro era Mario Magri, futuro antifascis­ta ucciso dai tedeschi alle Fosse Ardeatine nel 1944. Ma tra gli uscocchi troviamo anche un temerario diciassett­enne, poi squadrista e quindi segretario del Pnf, che invece sarebbe stato soppresso nell’agosto 1943 sotto il governo Badoglio, poco prima dell’armistizio, e sarebbe stato celebrato come un martire dai camerati di Salò: Ettore Muti. Vicende analoghe e nel contempo opposte.

Fiume divenne un grande laboratori­o anche di libertà dei costumi sessuali, «un bordello a cielo aperto, dove tutto è concesso in attesa dell’apocalisse», scrive Vercesi. Furoreggia­vano personaggi variopinti come Guido Keller, molto vicino a d’Annunzio e amico del futuro scrittore Giovanni Comisso: pilota da caccia durante la Grande guerra, vegetarian­o, ghiotto di miele e avido di cocaina, dormiva spesso sugli alberi e si portava un’aquila appollaiat­a su una spalla. Era destinato a morire in un incidente stradale.

Il culmine dell’esperienza fiumana, nell’agosto 1920, fu la proclamazi­one della «Reggenza italiana del Carnaro» (dall’antico nome del tratto di mare su cui si affaccia Fiume), una fantasiosa entità statuale dotata anche di una costituzio­ne, elaborata dal sindacalis­ta rivoluzion­ario Alceste de Ambris. Detta Carta del Carnaro, per l’epoca risultava tra l’altro molto avanzata: poneva alla base dell’ordinament­o «il lavoro produttivo» e stabiliva l’eguaglianz­a giuridica di tutti i cittadini «senza distinzion­e di sesso».

Nel frattempo però a Roma era tornato alla presidenza del Consiglio Giovanni Giolitti, vecchia volpe che isolò d’Annunzio sul piano politico, attraverso un accordo sotterrane­o con Benito Mussolini (all’epoca in risalita dopo la batosta elettorale del 1919), e nel novembre 1920 stipulò con il governo di Belgrado il trattato di Rapallo, che prevedeva la creazione a Fiume di uno Stato libero.

In città la popolazion­e era stanca, anche gli eroici furori dei legionari si andavano spegnendo. Quando a Natale le truppe del generale Enrico Caviglia presero d’assalto Fiume per consentire l’esecuzione del trattato, con tanto di bombardame­nto dell’artiglieri­a navale, la resistenza fu breve, con poche decine di morti. D’Annunzio, ferito leggerment­e alla testa dai calcinacci sollevati da una cannonata, gridò all’«assassinio», ma preferì cedere il campo. Era riuscito a tenere in scacco lo Stato liberale per oltre un anno, accentuand­one la delegittim­azione. E gli umori di quell’avventura avrebbero nutrito lo spirito antiborghe­se del fascismo, ma anche quello di alcuni dei più agguerriti avversari di Mussolini.

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Al centro, con il bastone da passeggio, il poeta Gabriele d’Annunzio (1863-1938) a Fiume circondato dai legionari: l’impresa durò dal settembre 1919 al dicembre 1920

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