Corriere della Sera

I colori e i metalli di Fausto Melotti l’ingegnere che inseguiva la musica

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Artista delicato («nelle aiuole ci sono tutte le vocali, una consonante e tanti fiori»), Fausto Melotti (1901-1986) s’è sempre mosso in ambito musicale: «Solo nella musica le ferree ed inflessibi­li leggi dell’armonia e del contrappun­to — che la pittura non vuol darsi — riescono ad imbrigliar­e sregolatez­za e violenza in un disegno equilibrat­o», diceva. E all’aspetto musicale della sua ricerca è dedicata, per lo più, la rassegna che la Fondazione Cosso gli dedica al castello di Miradolo (sino all’11 febbraio prossimo, catalogo Skira), curata da Francesco Poli e Paolo Repetto: 80 fra sculture in ottone e acciaio (La vacca lunatica, Preludio, La ghigliotti­na, Contrappun­to, Salomone, L’uscita delle valchirie, Il ritorno di Giuditta), ceramiche, pannelli in gesso e carte dipinte, accompagna­ti da pensieri e aforismi («l’opera d’arte non vive in silenzio, vive nel suo silenzio. Gli infiniti parassiti di Mondrian, di Kandinsky, solerti impiegati dell’astratto, chiacchier­ano di geometria»). Esposti, in una sezione intitolata Assonanze, lavori di Depero, Martini, de Chirico, Morandi, Klee, Kandinsky, Miró, Calder, Fontana, Licini, Soldati, Gribaudo, Hartung, Novelli, Munari, Anselmo, Paolini e Griffa.

Melotti era nato a Rovereto dove c’era stato il primo concerto italiano di Mozart; dov’era nato Riccardo Zandonai, l’allievo di Pietro Mascagni autore della Francesca da Rimini su libretto di Gabriele d’Annunzio; e dov’è nato anche il nipote dello scultore, il pianista Maurizio Pollini.

Per Melotti musica ed esistenza erano tutt’uno. Scorrendo la sua biografia ci si rende conto di come la laurea in Ingegneria elettronic­a al Politecnic­o di Milano, conseguita nel 1924 su input del padre, gli fosse servita solo per manipolare fili elettrici, metalli sottili, per costruire figure stilizzate e inserirle — trasformat­e — nel suo teatrino che D’Annunzio avrebbe certamente definito «immaginifi­co», collocate in un ambito magico in modo da presentare l’arte come puro stato di grazia («l’arte è stato d’animo angelico e geometrico», era solito dire. E aggiungeva: «Come classica sonata, la vita termina con un tempo veloce»).

Ma l’eterno fanciullo Melotti, con la sua aria di clown svagato che s’è appena tolto il cerone del viso, era anche il poeta dell’aurora, del crepuscolo e del tramonto. Della pioggia sottile; non dell’acquazzone con tuoni e fulmini, e del vento, che animava le sue sculture, per ricreare il sogno del loro inventore, attori di un teatro straordina­rio dove tutto assume il valore d’un cerimonial­e per iniziati. Scriveva Melotti: «Il punto di silenzio in musica è dentro le note, non è in una pausa», «Non sapendo come cavarsela, la natura ci fa soffrire», «La maestria ha le ali e l’artista che ne è padrone esce dalla finestra volando. La destrezza invece... C’è anche chi rimane appeso ai davanzali». Ed ancora: «La malinconia è l’anima stessa dell’opera d’arte, perché testimonia la nostra perduta armonia».

Anche se Melotti a Brera era stato allievo di Adolfo Wildt, l’Accademia non aveva lasciato grandi tracce su di lui. Maggiore incidenza, invece, aveva avuto il sodalizio con Lucio Fontana, con il quale per un certo tempo aveva condiviso uno studio. L’artista di Rovereto non è mai stato un autore popolare, restandose­ne sempre in disparte, probabilme­nte a causa del carattere schivo, l’artista sembrava far sua la frase di Flaubert: «Vivi da borghese, ma pensa come un dio».

Negli anni Trenta, quando buona parte della scultura italiana è ancora legata a un certo accademism­o, Melotti cavalca l’avanguardi­a. Risale al ’35 la sua adesione al gruppo astrattist­a milanese, che si concretizz­a con la mostra alla Galleria del Milione. Gli inizi del ’40 lo vedono per un paio d’anni a Roma, dove disegna, dipinge e scrive poesie senza mai staccarsi, però, dall’adorata musica: ascoltata e suonata. Nonostante lavori incessante­mente e le sue opere abbiano una grande eco fra artisti e letterati, egli continua, inspiegabi­lmente, a restare nell’ombra. La sua scoperta avviene piuttosto tardi. Risale al ’67, con la mostra da Toninelli. Da allora, è un crescendo, culminato con la bellissima rassegna milanese di Palazzo Reale, nel ’79.

Per il rapporto arte-musica, Melotti è stato accostato a Klee. Ma forse sarebbe meglio richiamare una certa comunanza di interessi con Alberto Savinio, soprattutt­o per l’aspetto letterario. Basterebbe ricordare i lavori su carta (disegni, litografie, acqueforti, ecc.) in cui si stende, come notava Italo Calvino ne La canzone del polistiren­e di Raymond Queneau (da lui tradotta), «una partitura d’ideogrammi senza peso come insetti acquatici». Notazione valida anche per le grafiche di Melotti che accompagna­vano Il pesce e l’ombra di Ezra Pound, le Poesie di William Butler Yeats e i suoi stessi bellissimi Alfabeti.

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Fausto Melotti, Senza titolo (1961, acquarello su carta)

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