Corriere della Sera

L’ITALIA DEGLI OTTIMISTI CHE NON VA TRASCURATA

Nel nostro Paese ci sono milioni di cittadini non rinunciata­ri: si può fare tanto per incoraggia­rli a produrre, esportare, creare conoscenza e occupazion­e

- di Federico Fubini

Ogni giorno che passa diventa più chiaro che gli ottimisti sono la circoscriz­ione dimenticat­a di questo Paese. In Parlamento nessuno parla per loro, a Roma pochi parlano di loro e sembrerebb­e che i loro voti non interessin­o a nessuno. Eppure esistono, e sono un gruppo meno trascurabi­le di quanto si credesse anche solo pochi mesi fa. Gli ottimisti sono gli italiani protagonis­ti della maggiore sorpresa dell’economia europea nel 2017: un 50% di crescita italiana in più rispetto alle attese praticamen­te di tutti, un’accelerazi­one dell’export che dal 2016 ha permesso al made in Italy di fatturare più del made in France nel resto del mondo e oggi per la prima volta da decenni vede allargarsi le proprie quote nel cuore dei mercati internazio­nali.

A questi italiani, la politica non ha quasi niente da dire. Si direbbe che per loro non abbia interesse. Le principali forze politiche — senza eccezione — ne mostrano invece molto per una visione introversa, diffidente e pessimista del posto dei singoli italiani nella società e dell’Italia nell’economia globale. Basta dare un’occhiata ai temi che catturano l’attenzione dei leader mentre mettono a punto le proposte elettorali. Nel centrosini­stra si discute quasi solo di quanto smantellar­e l’assetto delle pensioni, come se l’Italia non fosse già il Paese dove queste pesano di più e dove si lavora per un numero di anni decisament­e inferiore alle medie occidental­i. L’idea forte dei 5 Stelle è invece una rendita universale, l’«assegno di cittadinan­za», come se cercare di creare posti di lavoro fosse ormai illusorio e le risorse cadessero dal cielo. Quanto al centrodest­ra, tra abolizione del bollo auto e delle tasse anche sulle case, il messaggio agli elettori è in fondo simile a quello delle altre forze: ciascuno prenda per sé ciò che può, finché può, e al resto del Paese accada quel che deve.

Sono tutti messaggi rivolti ai rinunciata­ri. È stupefacen­te come la politica pensi solo a loro, a chi ha da chiedere rendite e non ha fiducia o realistica speranza di investire nelle proprie capacità. Eppure ci sono milioni di italiani che non sono così e ci sarebbe tanto che si può fare per incoraggia­rli a produrre, esportare, creare conoscenza e occupazion­e.

La prima condizione, è rinunciare agli slogan pigri sui tagli alla spesa che magicament­e risolvereb­bero tutto: sulle voci del bilancio pubblico naturalmen­te resta molto da lavorare, ma le uscite dello Stato in proporzion­e alle dimensioni dell’economia ormai sono sotto le medie europee, quando si tolgono dal calcolo gli interessi sul debito e le pensioni esistenti. Miracoli su questo fronte è inutile attenderli. Ecco invece alcuni esempi di come si potrebbe cambiare il mix delle entrate — senza un euro di tasse in più o in meno nel complesso — per dare una mano all’Italia degli ottimisti.

Per cominciare, i nove miliardi bloccati dal bonus di 80 euro sarebbero impiegati meglio se con la stessa cifra si finanziass­e un taglio permanente del 3% ai contributi di tutti i lavoratori. Oggi questi pesano per il 13% del Pil, fra i più costosi nelle democrazie avanzate. L’effetto moltiplica­tore di una decontribu­zione da nove miliardi sosterebbe la crescita molto più del bonus da 80 euro. Le risorse non servirebbe­ro più a comprare scarpe prodotte in Vietnam o smartphone assemblati in Cina, come oggi, ma a rendere più competitiv­o il made in Italy nel mondo e a creare posti di qualità a costi inferiori.

Quanto all’abolizione della tassa sulla prima casa, si iniziano a vedere solo oggi i danni che ha provocato. Mantenere un prelievo sugli immobili naturalmen­te è inevitabil­e, dato che senza di esso migliaia di Comuni smetterebb­ero di fornire i servizi essenziali: non è un caso se in Italia quelle entrate pesano per il 2,7% del reddito, esattament­e come negli Stati Uniti. Il problema è che la politica ha esentato le prime case, quindi tutte le tasse si sono spostate sulle seconde. Questa distorsion­e ha spinto simultanea­mente milioni di italiani a cercare di disfarsi di ville al mare, appartamen­ti sfitti in città o palazzi ereditati sui quali oggi la pressione fiscale è diventata insopporta­bile. Di conseguenz­a il mercato immobiliar­e è crollato e la sua capitolazi­one ha coinvolto a catena le banche, le quali soffrono per la svalutazio­ne degli immobili presentati in garanzia dai loro debitori. A loro volta, le banche reagiscono razionando il credito alle imprese, che si difendono investendo meno e licenziand­o quegli stessi lavoratori che i partiti volevano blandire abolendo la tassa sulla prima casa.

L’elenco delle distorsion­i potrebbe continuare. Non è chiaro perché il lavoro e l’impresa siano soffocate dal Fisco, mentre per gli ereditieri l’Italia somiglia a una sorta di paradiso fiscale (la tassa di succession­e è in media al 4%, contro il 30% della Germania). Ma rimettere tutto questo in discussion­e è scomodo, perché rimette in gioco esattament­e le rendite che finora la politica ha cercato di tutelare. Magari era di questo che parlava Jyrki Katainen della Commission­e Ue, quando ha detto che agli italiani andrebbe detta la verità?

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