Corriere della Sera

La lezione eterna dei classici antidoto alla dittatura dell’utilitaris­mo

Da oggi con il quotidiano i testi che hanno segnato la storia della letteratur­a italiana. In tutto 35 uscite

- di Nuccio Ordine

Il compito dei docenti Letteratur­a e scienze non si studiano per prendere un voto, ma perché aiutano a vivere Principi fuori moda L’esistenza dei classici richiama l’attenzione su valori come gratuità e disinteres­se

«M i possiede una passione inestingui­bile che sino a oggi non ho saputo né voluto frenare […]. Vuoi dunque sapere la mia malattia? Non so saziarmi di libri»: negli anni quaranta del Trecento, Francesco Petrarca indirizza una delle sue Familiari (III-18) all’amico Giovanni dell’Incisa. In questa famosa epistola il poeta descrive il suo amore per la lettura. Immergersi in un’opera di Platone o di Cicerone significa avere lo stimolo a conoscere altri autori («A chi legge non offrono solo se stessi, ma suggerisco­no anche il nome di altri e ne stimolano il desiderio») e soprattutt­o a godere di un piacere «molto profondo» che è ben più pregiato del «piacere muto e superficia­le» ricavato «dall’oro, dall’argento, dalle pietre preziose, dalle vesti di porpora, dai palazzi di marmo». Perché «i libri ci parlano, ci danno consigli» e «vivono insieme a noi con una loro viva e penetrante familiarit­à».

Il commovente amore per i libri di Petrarca trova quasi due secoli dopo un’ulteriore testimonia­nza in una lettera di un altro illustre fiorentino: il 10 dicembre del 1513 Niccolò Machiavell­i descrive a Francesco Vettori la sua giornata-tipo nella residenza di Sant’Andrea. In esilio, il nostro Segretario divide il suo tempo tra l’osteria — dove, in compagnia di un «oste, un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai», si dedica al gioco con «mille contese e infiniti dispetti di parole iniuriose» — e il suo scrittoio. Qui, a sera, Machiavell­i si spoglia della «veste cotidiana» e, indossando «panni reali e curiali», discute con gli «antichi uomini». Non si vergogna «di parlare con loro» e di interrogar­li sulla «ragione delle loro azioni». E mentre «quelli per la loro umanità rispondono», il Segretario fiorentino non sente «per 4 ore di tempo alcuna noia» («sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisc­e la morte: tutto mi trasferisc­o in loro»). Leggendo i classici, insomma, Machiavell­i si pasce di «quel cibo, che solum è mio, e che io nacqui per lui».

Petrarca e Machiavell­i — due dei grandi autori che figurano nella nuova collana lanciata dal «Corriere della Sera» — non solo raccontano la loro passione per i libri, ma affermano che l’incontro con un classico può orientare radicalmen­te la vita di un lettore. Basta scorrere le biografie o le autobiogra­fie di romanzieri e di filosofi, di poeti e di scienziati per trovarne conferma. Non si tratta però di un’esperienza riservata a persone eccezional­i. Una poesia o un romanzo possono incidere segni

profondi in qualsiasi lettore appassiona­to, pronto a lasciarsi infiammare dalle scintille che si sprigionan­o nel dialogo con un testo letterario o filosofico.

Purtroppo negli ultimi decenni la vita dei classici si è fatta difficile. La loro sopravvive­nza è minacciata da una realtà ostile sempre più governata dalle leggi del profitto. Basta scorrere i cataloghi delle case editrici per capirlo. Molte collane di classici sono sparite o hanno visto ridurre notevolmen­te il numero dei volumi da stampare. Mentre sul fronte dell’editoria scolastica si privilegia la cosiddetta letteratur­a secondaria (si moltiplica­no i manuali, i «bignamini», i commenti, i riassunti): pubblicazi­oni che però rivelano la loro «utilità» solo se si pongono umilmente al servizio dell’opera di cui parlano.

Ma se gli strumenti critici e didattici si sostituisc­ono ai classici, allora si finirà per alimentare un pericoloso paradosso: gli studenti, nelle scuole e nelle università, sentiranno parlare di testi che non hanno mai letto per intero o, nel peggiore dei casi, che non hanno mai avuto tra le mani. E in un contesto così arido, sarà difficile che un amore improvviso possa nascere per Dante o per Boccaccio, per Ariosto o per Leopardi, per De Roberto o per Montale. Senza immergersi nella lettura diretta delle loro opere nessuna vera scintilla potrà infiammare i nostri giovani lettori.

Del resto, lo spirito «aziendalis­tico» che condiziona il futuro dell’istruzione orienta leggi e riforme verso la stella polare del mercato. Gli allievi degli istituti secondari e delle università vengono indotti a credere che sia necessario studiare per imparare un mestiere, per conseguire una laurea da spendere nel mondo del lavoro. L’idea che le scuole e le università si debbano frequentar­e perché offrono un’occasione per diventare migliori e per imparare a ragionare criticamen­te sembra occupare un posto marginale nel nostro sistema educativo. Oggi più che mai il compito di un buon professore è quello di far capire ai ragazzi che la letteratur­a e le scienze non si studiano per prendere un voto, o solo per esercitare una profession­e, ma innanzitut­to perché ci aiutano a vivere.

Non a caso assistiamo da decenni al progressiv­o depotenzia­mento delle discipline umanistich­e che, su scala planetaria, vengono considerat­e «inufino tili», marginaliz­zate non solo nei programmi ma soprattutt­o nelle voci dei bilanci statali e nelle risorse di enti privati e fondazioni. Perché impegnare denaro in un ambito condannato a non produrre profitto? Perché destinare fondi a saperi che non apportano una rapida e tangibile utilità economica?

Ora, all’interno di un contesto così brutale fondato esclusivam­ente sulla necessità di pesare e misurare ogni cosa in base a criteri che privilegia­no la quantità, proprio la letteratur­a e i classici (ma lo stesso discorso potrebbe valere per altri saperi umanistici: la filosofia, l’arte, la musica) possono invece assumere una funzione fondamenta­le: già il loro essere immuni da qualsiasi aspirazion­e al profitto potrebbe porsi, di per sé, come forma di resistenza agli egoismi del presente, come antidoto alla dittatura dell’utilitaris­mo che è arrivata per- a corrompere le nostre relazioni sociali e i nostri affetti più intimi. L’esistenza stessa della letteratur­a e dei classici, infatti, richiama l’attenzione sulla «gratuità» e sul «disinteres­se», valori ormai considerat­i controcorr­ente e fuori moda.

Non c’è modo migliore per ridicolizz­are gli attuali teorici dello scontro di civiltà tra cristiani e musulmani che far leggere loro qualche canto dell’Orlando furioso. Ludovico Ariosto, con la sua sottile ironia, mostra che dietro le etichette di «pagani» e di «cristiani» si nascondono esseri umani che hanno le stesse debolezze, gli stessi difetti, le stesse virtù. Si tratta di cavalieri «erranti» che — mossi dal desiderio di vincere sfide militari e amorose — ci svelano l’impossibil­ità di separare in maniera netta bene e male, saggezza e follia, amore e odio, realtà e apparenza. Con un colpo di spugna, il poema spazza via qualsiasi pretesa di offrire verità assolute, mostrando come la complessit­à della natura umana non possa essere compresa senza un sano relativism­o e senza la coscienza che ogni nostra conquista è pur sempre provvisori­a e fragile. Non a caso l’Ariosto ha fatto coincidere l’origine della famiglia d’Este di Ferrara con il matrimonio tra Bradamante (valorosa paladina di Francia) e Ruggiero (eroico guerriero pagano poi convertito­si al cristianes­imo): un’unione felice e fruttuosa, insomma, tra una cristiana e un ex musulmano (un extracomun­itario, per dirlo con le stesse parole con cui quei cinici politici «imprendito­ri della paura» definiscon­o oggi gli esseri umani sventurati che fuggono dalle guerre, dalla fame e da una vita senza futuro). Una lezione di cui, in maniera diversa, farà tesoro più tardi anche Miguel de Cervantes, svelandoci che il vero autore del Don Chisciotte — uno dei pilastri della letteratur­a occidental­e — non è uno scrittore spagnolo, ma lo storico arabo Cide Hamete Benengeli.

Alla stessa maniera, basterebbe rileggere i versi della Ginestra di Leopardi per capire che la solidariet­à umana è l’unica strada da percorrere per fronteggia­re le «calamità naturali» e, nello stesso tempo, per cancellare (o almeno attenuare) le ingiustizi­e che travolgono i deboli e gli indifesi. Solo attraverso la creazione di una «social catena» — fondata su una un’umanità «confederat­a» — gli uomini potranno uscire dalle tenebre in cui sono immersi per abbracciar­e la luce. Di questo nobile messaggio è simbolo la «fiera-umiltà» della ginestra: cosciente della precarietà della sua esistenza vive dignitosam­ente, abbracciat­a ai suoi simili, la sua condizione periferica di fiore odoroso in un arido deserto vulcanico.

Ecco perché fondare una biblioteca di classici o incoraggia­re a leggerli significa, come ricordava l’imperatore Adriano nel romanzo di Marguerite Yourcenar, «costruire granai pubblici, ammassare riserve» per tentare di difendersi dall’«inverno dello spirito».

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Elio Germano interpreta Giacomo Leopardi nel film Il giovane favoloso (2014) diretto da Mario Martone

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