Corriere della Sera

Le tante guerre di Pietro Ingrao Il comunista che sapeva ascoltare

- Di Paolo Franchi

Rinvenuto da Nino Cardillo tra le carte di Pietro Ingrao, spunta un inedito datato 1998, Memoria, domani in libreria, con una bella postfazion­e del curatore Alberto Olivetti, per i tipi della Ediesse, la casa editrice della Cgil. Dentro ci sono gli ultimi settant’anni del Novecento letti da un comunista tanto atipico quanto cocciuto. E soprattutt­o riflession­i, giudizi, ricordi, vividi flash, utilissimi per capirne meglio il profilo politico e intellettu­ale. Che emerge già dal titolo con cui Ingrao aveva inizialmen­te archiviato questo testo, Memorie di guerra, in chiaro riferiment­o alla «imperiosa inclinazio­ne militare» assunta nel secolo scorso dallo scontro politico e sociale, e alla «lettura armata» di questo, diffusa non soltanto tra i comunisti, ma tra i comunisti, cresciuti nel mito della rivoluzion­e d’Ottobre, particolar­mente radicata. È sulla possibilit­à di emancipars­ene senza rinunciare a una prospettiv­a, o meglio a un processo di liberazion­e che Ingrao, contro lo spirito del tempo, testardame­nte si interroga.

Memoria, memorie di guerra. È sull’onda della guerra civile spagnola che il ventenne o poco più Pietro Ingrao, studente universita­rio annoiato ma appassiona­to neoiscritt­o al Centro sperimenta­le di cinematogr­afia, incontra i comunisti, ai suoi occhi interpreti della «lotta al fascismo che rifiutava l’attesa»: sin lì, è stato fascista, «non solo ebbi la tessera, partecipai». Certo, ai Littoriali ha scoperto l’esistenza del dissenso; certo, ha visto e letto, amandoli, film e libri che con la retorica fascista non c’entrano proprio. Magari il dubbio si è già insinuato in qualche modo nella sua testa. Ma è solo di fronte all’alzamiento di Francisco Franco, uno shock, che il cammino trova il suo sbocco: comincia il tempo della cospirazio­ne. C’è il tempo dei «passaggi ibridati» e delle «vie tortuose e persino ambigue». E c’è il tempo delle scelte di vita.

Memoria, memorie di guerra. La Resistenza, la clandestin­ità, la fame. E infine la pace, la corsa all’alba per vedere i carri armati americani per le strade di Roma, l’arruolamen­to volontario come sergente nell’Esercito di liberazion­e, la miseria e le speranze di un’Italia allo stremo, «l’emozione grande di quando vedemmo ritornare dagli Usa Misha Kamenetzky, e scrivere con il nome di Ugo Stille sul “Corriere della Sera”». Ma soprattutt­o il Partito («allora lo scrivevamo con la maiuscola»), e «l’Unità», dove Palmiro Togliatti spedisce tanti giovani di belle speranze come lui, da Alfredo Reichlin a Luciano Barca, da Luigi Pintor a Luca Pavolini, ad inventarsi magari controvogl­ia giornalist­i, «caricati dall’obbligo di orientare la sinistra, giorno dopo giorno, in un Paese sortito da una sconfitta storica e avviato verso un domani abbastanza ignoto». La Seconda guerra mondiale è appena terminata, se ne apre una nuova, fredda ma sempre sul punto di riscaldars­i. Per il Pci il contraccol­po è durissimo, stretto com’è «nell’angolo dal conflitto tra i due blocchi e l’adesione fatale allo stalinismo». Come tutti i partiti «fratelli», ricorre a un linguaggio e a una cultura «militari», invoca (Togliatti) una «ferrea disciplina», teorizza (Ingrao) la necessità imperiosa di stare «da una parte della barricata». Ma, a differenza di altri, resiste. Perché — questa è la tesi di Ingrao — con tutta la sua struttura gerarchica promuove una straordina­ria «dilatazion­e della politica», che investe la quotidiani­tà, chiamando al rapporto con gli altri anche i militanti più settari, e diventa così «l’interprete di estesi bisogni civili e, assieme, l’allusione a un rivolgimen­to sociale». Quando non riuscirà più a farlo, inizierà un inesorabil­e declino.

Memoria, memorie di guerra. Conta, eccome, il condiziona­mento internazio­nale. Quanto, lo prova l’«indimentic­abile 1956», per Ingrao «il primo lampo del lento tornado che poi travolgerà» il comunismo mondiale. Prende corpo l’inimmagina­bile, a cominciare dallo scontro mortale tra Mosca e Pechino. Nel 1962, in una Cuba che non gli piace neanche un po’, un emozionato Ingrao chiede al Che cosa pensi del movimento operaio europeo: «La risposta che diede mi ghiacciò: mi disse che… era perduto, stava nell’altro campo». Poi le speranze si appuntano, invano, sul Vietnam. Prima della fine i rapporti si diplomatiz­zano, in un dialogo tra sordi. Nel 1980 Ingrao è in Corea del Nord, per incontrare Kim il Sung: «Mi domandavo, uscendo, quale vento aveva portato a incontrars­i in quei siti imperiali un intellettu­ale comunista della penisola italiana e quel vecchio rivoltoso contadino di un estremo angolo dell’Asia. Ambedue in qualche modo accomunati da una storia che avevamo chiamato comunismo».

Memoria, memorie di guerra. Lo stragismo, Aldo Moro, le Brigate rosse. Ingrao è presidente della Camera. Chi sono i brigatisti? «Ricordo l’ostinata saggezza con cui mia moglie mi diceva: sei sciocco; ti fa comodo cavartela dall’impiccio in questo modo, dicendo che non è roba nostra… In qualche modo erano “nostri”, o almeno assai prossimi». Nel 1978 milita autorevolm­ente nel partito della fermezza. Vent’anni dopo annota: «A guardare oggi, con la calma della distanza, quelle vicende tragiche, non vedo come escludere l’ipotesi che si potesse trattare per la vita di Moro e sconfigger­e i brigatisti». Domande, risposte, domande. Forse sono proprio questa capacità di ascolto e questo impenitent­e interrogar­si il principale lascito (smarrito) di Pietro Ingrao.

Ripensamen­to «Oggi non vedo come escludere l’ipotesi che si potesse trattare per la vita di Moro»

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Pietro Ingrao (1915-2015) mentre tiene un comizio nel 1974

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