Il Corriere a Torino L’identità, le idee, il futuro
Ha fatto due volte l’Italia, ma ora è poco ascoltata Colpita dalla crisi, ha scelto la discontinuità politica Un’identità frammentata chiede simboli e idee
Torino, dritta e squadrata, pare la città dell’apocalisse, la Gerusalemme terrena. In realtà è una montagna russa. Ha picchi e picchiate, discese ardite e risalite.
GSEGUE DALLA PRIMA
ià quarant’anni prima che nascesse la Fiat, Melville scrisse che Torino pareva fatta con il denaro di un unico capitalista. Infatti è città di fondazione, pensata per essere capitale: Emanuele Filiberto scelse un borgo medievale alla confluenza tra il Po e la Dora per farne il suo avamposto verso l’Italia. Milano è cresciuta disordinatamente, a centri concentrici: diffonde energia, a camminarci sopra sembra che il sottosuolo nasconda una centrale elettrica. Torino è una scacchiera: dà un senso di immobilità e chiusura, per animarla ci si è dovuti inventare una tradizione satanica del tutto immaginaria; non è vero neppure che è una città calvinista, anzi fu tra le capitali della Controriforma, i Savoia bruciavano le nudità delle tele rinascimentali, Carlo Alberto in gioventù ballava la Carmagnola con i rivoluzionari ma con la maturità prese il cilicio.
Nella realtà, in questi anni Torino è stata davvero sull’ottovolante. Nel 1971, zenit dell’era industriale, arrivò a un milione e 200 mila abitanti: Mirafiori aveva 55 mila operai: la più grande fabbrica d’Europa. Oggi Torino è scesa a meno di 900 mila. Eppure è reduce da dieci anni di espansione. Seppe reagire alla morte dell’Avvocato: la città si mise in coda al Lingotto per rendere omaggio al sovrano, si rese conto che tutto era ancora lì, intatto, e si rimise al lavoro, dopo il tempo della grande paura. Scoprì un’inattesa vocazione turistica. Si è data una rete di musei e fondazioni d’arte contemporanea senza uguali. Ha fondato interi quartieri, come quello tra il Politecnico e la Fondazione Merz.
Le Olimpiadi sono state un simbolo più che una svolta. Torino è diventata una città italiana come le altre, nel bene e nel male. Non più la «porca città francese» maledetta da Mussolini (per un piemontese è incomprensibile la memoria del fascismo, indulgente a Milano, nostalgica a Roma), non più la «città di guarnigione» descritta da Agnelli in un’intervista a Eugenio Scalfari, dove «i doveri stanno prima dei diritti, l’aria è fredda, la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascismo è una cosa seria e anche il lavoro, e il profitto». Oggi anche a Torino si tira tardi, si mangia e si beve all’aperto pure d’inverno, l’aria è mite accanto ai «funghi» con cui i mitici caffè del centro riscaldano i ragazzi della movida e i turisti abbienti.
Eppure negli ultimi due, tre anni Torino si è fermata. Basta fare una passeggiata in via Po per rendersene conto: negozi chiusi, serrande abbassate. Si è cercata una soluzione nella discontinuità politica, all’evidenza senza esito. Il malumore è sempre dietro l’angolo. A volte pare tornata la città di Gozzano, di fine 800, non più capitale politica e non ancora capitale economica, dove signore sempre più belle mangiano le paste nelle confetterie.
Ma proprio questi momenti difficili sono i momenti giusti per investire, scompaginare le carte, tentare uno spariglio. C’è una borghesia piccola e media che in questo tempo è stata poco ascoltata. Che ha vissuto le grandi trasformazioni della metropoli sulla propria pelle. Che è rimasta immune dalla sudditanza economica e psicologica verso la Fiat. Che non ha mai creduto al mito del comunismo italiano, per cui un’idea sbagliata e talora criminale da Vladivostok all’Avana qui da noi diventava giusta o almeno nobile. Che ha custodito l’identità frammentata di una città che ha fatto l’Italia due volte, con il Risorgimento e la rivoluzione industriale, a San Martino e a Mirafiori, ma non si vede riconoscere il merito dal resto del Paese, anzi: tutto quel che il Piemonte ha fatto, dall’unificazione nazionale alla Resistenza al nazifascismo, è stato in questi anni denigrato con una virulenza impressionante. È a questa borghesia che può parlare il Corriere di Torino, con un’attenzione ai fatti — anche alle cronache più minute — che diventano storie, simboli, idee.
I miei amici rimasti in città mi dicono che si discute molto della pubblicità in cui Cavour legge il Corriere. Qualcuno fa notare che, quando nacque il Corriere, Cavour era morto da quindici anni. Eppure sono convinto che il conte — un idealista pragmatico, un moderato rivoluzionario — sia stato per certi versi un corrierista ante litteram. Generoso com’era — morì più povero di quando era entrato in politica —, avrà perdonato il ritardo.