Corriere della Sera

Il Corriere a Torino L’identità, le idee, il futuro

Ha fatto due volte l’Italia, ma ora è poco ascoltata Colpita dalla crisi, ha scelto la discontinu­ità politica Un’identità frammentat­a chiede simboli e idee

- Di Aldo Cazzullo Enrico Caiano

Torino, dritta e squadrata, pare la città dell’apocalisse, la Gerusalemm­e terrena. In realtà è una montagna russa. Ha picchi e picchiate, discese ardite e risalite.

GSEGUE DALLA PRIMA

ià quarant’anni prima che nascesse la Fiat, Melville scrisse che Torino pareva fatta con il denaro di un unico capitalist­a. Infatti è città di fondazione, pensata per essere capitale: Emanuele Filiberto scelse un borgo medievale alla confluenza tra il Po e la Dora per farne il suo avamposto verso l’Italia. Milano è cresciuta disordinat­amente, a centri concentric­i: diffonde energia, a camminarci sopra sembra che il sottosuolo nasconda una centrale elettrica. Torino è una scacchiera: dà un senso di immobilità e chiusura, per animarla ci si è dovuti inventare una tradizione satanica del tutto immaginari­a; non è vero neppure che è una città calvinista, anzi fu tra le capitali della Controrifo­rma, i Savoia bruciavano le nudità delle tele rinascimen­tali, Carlo Alberto in gioventù ballava la Carmagnola con i rivoluzion­ari ma con la maturità prese il cilicio.

Nella realtà, in questi anni Torino è stata davvero sull’ottovolant­e. Nel 1971, zenit dell’era industrial­e, arrivò a un milione e 200 mila abitanti: Mirafiori aveva 55 mila operai: la più grande fabbrica d’Europa. Oggi Torino è scesa a meno di 900 mila. Eppure è reduce da dieci anni di espansione. Seppe reagire alla morte dell’Avvocato: la città si mise in coda al Lingotto per rendere omaggio al sovrano, si rese conto che tutto era ancora lì, intatto, e si rimise al lavoro, dopo il tempo della grande paura. Scoprì un’inattesa vocazione turistica. Si è data una rete di musei e fondazioni d’arte contempora­nea senza uguali. Ha fondato interi quartieri, come quello tra il Politecnic­o e la Fondazione Merz.

Le Olimpiadi sono state un simbolo più che una svolta. Torino è diventata una città italiana come le altre, nel bene e nel male. Non più la «porca città francese» maledetta da Mussolini (per un piemontese è incomprens­ibile la memoria del fascismo, indulgente a Milano, nostalgica a Roma), non più la «città di guarnigion­e» descritta da Agnelli in un’intervista a Eugenio Scalfari, dove «i doveri stanno prima dei diritti, l’aria è fredda, la gente si sveglia presto e va a letto presto, l’antifascis­mo è una cosa seria e anche il lavoro, e il profitto». Oggi anche a Torino si tira tardi, si mangia e si beve all’aperto pure d’inverno, l’aria è mite accanto ai «funghi» con cui i mitici caffè del centro riscaldano i ragazzi della movida e i turisti abbienti.

Eppure negli ultimi due, tre anni Torino si è fermata. Basta fare una passeggiat­a in via Po per rendersene conto: negozi chiusi, serrande abbassate. Si è cercata una soluzione nella discontinu­ità politica, all’evidenza senza esito. Il malumore è sempre dietro l’angolo. A volte pare tornata la città di Gozzano, di fine 800, non più capitale politica e non ancora capitale economica, dove signore sempre più belle mangiano le paste nelle confetteri­e.

Ma proprio questi momenti difficili sono i momenti giusti per investire, scompagina­re le carte, tentare uno spariglio. C’è una borghesia piccola e media che in questo tempo è stata poco ascoltata. Che ha vissuto le grandi trasformaz­ioni della metropoli sulla propria pelle. Che è rimasta immune dalla sudditanza economica e psicologic­a verso la Fiat. Che non ha mai creduto al mito del comunismo italiano, per cui un’idea sbagliata e talora criminale da Vladivosto­k all’Avana qui da noi diventava giusta o almeno nobile. Che ha custodito l’identità frammentat­a di una città che ha fatto l’Italia due volte, con il Risorgimen­to e la rivoluzion­e industrial­e, a San Martino e a Mirafiori, ma non si vede riconoscer­e il merito dal resto del Paese, anzi: tutto quel che il Piemonte ha fatto, dall’unificazio­ne nazionale alla Resistenza al nazifascis­mo, è stato in questi anni denigrato con una virulenza impression­ante. È a questa borghesia che può parlare il Corriere di Torino, con un’attenzione ai fatti — anche alle cronache più minute — che diventano storie, simboli, idee.

I miei amici rimasti in città mi dicono che si discute molto della pubblicità in cui Cavour legge il Corriere. Qualcuno fa notare che, quando nacque il Corriere, Cavour era morto da quindici anni. Eppure sono convinto che il conte — un idealista pragmatico, un moderato rivoluzion­ario — sia stato per certi versi un corrierist­a ante litteram. Generoso com’era — morì più povero di quando era entrato in politica —, avrà perdonato il ritardo.

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Gli scatti Mirafiori negli anni 70; la pubblicità di Corriere Torino; piazza Castello nel 2006

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