Corriere della Sera

«Che» Dibba

- di Massimo Gramellini

Sarò ingenuo, ma la decisione del parlatore seriale Alessandro Di Battista di lasciare il Palazzo mi sembra sincera. La stanza dei bottoni è uno dei luoghi più uggiosi del mondo, specie da quando sono scomparsi i bottoni, saldamente nelle mani della finanza internazio­nale. Di Battista detto Dibba è un oratore efficace, l’unico grillino (a parte Grillo) non imparentat­o con una marca di sonniferi. Ma basta guardarlo in faccia per capire che in quella stanza si annoia. Se vuoi il potere, devi amarlo. Provare un piacere fisico per la trattativa estenuante, il ricatto insinuante, il compromess­o debilitant­e. Gli innamorati del potere gli hanno attribuito dei doppi fini che in realtà appartengo­no al loro modo di pensare. Con le dovute proporzion­i, ci mancherebb­e, Dibba sta a Di Maio come «Che» Guevara a Fidel. L’uno è un artista, l’altro un burocrate. E gli artisti, persino gli artisti del nulla, stanno più simpatici dei burocrati perché danno l’impression­e di amare la vita più del potere. Prendete una popstar italiana di fama internazio­nale come Berlusconi. Gli è bastato uscire dal teatrino della politica per perdere chili e riguadagna­re consensi. Compreso quello di Scalfari, l’arcinemico, che dopo averlo dipinto per vent’anni come l’anello di congiunzio­ne tra un padrino e un playboy ha dichiarato di preferirlo a Di Maio. A sinistra qualcuno comincia a preferirlo anche a Renzi, che forse sarebbe già tornato in auge, se un anno fa avesse trovato la forza di sparire. Ma, proprio perché non l’ha avuta, rischia di sparire adesso.

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