Hariri ritorna e sorprende: niente dimissioni
Agli sbandieratori che l’hanno celebrato davanti a casa promette «non ho intenzione di lasciarvi soli». E per ora Saad Hariri non ha neppure intenzione di dimettersi. Tornato a Beirut nelle ore delle celebrazioni per il giorno dell’Indipendenza, il primo ministro libanese ha accettato la richiesta del presidente Michel Aoun: il governo — nato solo undici mesi fa — resta in carica, il Paese evita almeno per qualche tempo di riaffondare nel vuoto politico. A settantaquattro anni dalla fine del mandato francese, il Libano deve ancora lottare per garantirsi la sovranità, per non diventare — come ai tempi della guerra civile tra il 1975 e il 1990 — il campo di battaglia per sfide che si giocano al di là dei suoi confini. Strategie macchinate in questa crisi nei palazzi dei principi sauditi, dove Hariri è stato ospite — «detenuto» secondo gli avversari — e da dove il 4 novembre aveva annunciato le dimissioni. Di quel discorso restano le accuse all’Iran di voler distruggere gli Stati arabi e a Hezbollah — che di Teheran è il braccio armato e politico in Libano — di tenere in ostaggio il Paese. Adesso ripete di voler «proteggere il Libano dalle guerre circostanti e da tutte le loro ramificazioni». I miliziani di Hezbollah combattono in Siria per garantire a Bashar Assad di restare al potere, un obiettivo che ormai i russi e gli iraniani (alleati nel sostegno al dittatore) considerano raggiunto. Insieme proclamano vittoria. I sauditi vogliono contrastare l’espansionismo sciita, chiamano a raccolta le altre nazioni sunnite della regione, Hariri sarebbe diventato una pedina in questo scontro per l’egemonia in Medio Oriente. Riad vuole isolare Hezbollah — quattro suoi ministri siedono nel governo libanese — e pretende che il premier agisca con più forza contro l’organizzazione, con la fermezza che al padre Rafik è costata la vita, massacrato da un’autobomba nel 2005.