Nudi femminili immersi nella luce Poesia su tela di Giuseppe Ajmone
Anche se di soggetto diverso, il Llanto por Ignacio Sánchez Mejías di Giuseppe Ajmone (1945) richiama, a primo acchito, Les demoiselles d’Avignon di Picasso, del 1907. L’artista piemontese (19232005) lo aveva dipinto dopo avere letto l’elegia di Federico García Lorca dedicata all’amico torero ferito nell’arena del paesino di Manzanares e morto a Madrid nel 1934 (cantato anche da Miguel Hernández e Rafael Alberti). Il Llanto fa parte della mostra di 36 opere (che «sintetizzano» 60 anni di pittura) che il castello Visconteo Sforzesco di Novara dedica (sino al 10 dicembre) ad Ajmone, curata da Lorella Giudici. E non è il solo quadro «spagnolo». Ci sono anche Trajes de luces (1958), dedicato al costume pieno di lustrini, indossato dai toreri nell’arena, e Vecchia Castiglia (1959), un paesaggio della regione iberica.
Ajmone non ha illustrato il poema di García Lorca; l’ha interpretato, piuttosto. Così come quando ha affrontato altri testi letterari: Lavorare stanca di Cesare Pavese, Le strade di Raffaele Carrieri («Quello che sono e sono stato/ domandatelo alle strade/ dei paesi della sete./ Tufi lucertole spine,/ bell’uva sulle colline/ dove fui ladro di galline»), Poesie di Antonio Uccello, Uomo del mio tempo di Salvatore Quasimodo, Eremita a Parigi di Italo Calvino, I nomi di Giorgio Zampa, e così via.
In rassegna le «stagioni» di Ajmone: il nudo dell’allora studente a Brera che segue i corsi di Achille Funi e Carlo Carrà, la struttura della composizione ispirata da Braque, la vocazione geometrica, la gamma dei colori di Matisse e Casorati, la lezione dell’Informale, la scommessa con gli arazzi e, dagli anni Sessanta in poi, tutta una serie di nudi femminili che diventeranno un po’ il suo «marchio di fabbrica»: vere e proprie liriche scritte con il colore. Le prime avvisaglie, però, s’erano avute nel lontano 1946, in una collettiva in cui Ajmone esponeva con Bergolli, Morlotti, Paganin e Testori. «Per l’occasione, ogni sera, per una settimana ci incontravamo con un gruppo di intellettuali milanesi in una specie di convivio per discutere le cose dell’arte» ricorderà l’artista di Carpignano Sesia. C’erano Malipiero e Gatto, Ferrata e Vittorini, Anceschi e Quasimodo, Grassi e Dal Fabbro, De Grada e Paci, Banfi e Bontempelli.
Le donne di Ajmone paiono velate da una luce («che si scioglie dentro il colore»), modulata, sino a raggiungere un equilibrio sottile fra soggetto ed atmosfera: affiorano sulla tela come da una vasca da bagno, per poi riaffondarvi. Poi la materia sembra disfarsi, diventare impalpabile. A questo punto comincia l’avventura interna del personaggio, che corrisponde di pari passo con quella dell’artista. Vengono in mente le parole di Roberto Tassi («Ragione ed emozione sono unite in modo da controllarsi a vicenda e da non prevaricare mai una sull’altra») e quelle di Dino Buzzati («Bacon è l’intimità dell’angoscia, Ajmone è l’intimità del desiderio». Ed ancora, sul «Corriere della Sera»: «Conosco diversi artisti i quali in camera caritatis confessano che il massimo scopo della loro vita è fare l’amore. La donna […], il corpo da concupire e da godere è, giorno e notte, il loro chiodo fisso. Eppure non la dipingono. E allora io ne diffido».
Si tenga presente la parabola artistica di Ajmone, le sue simpatie cubiste (Braque, citato prima), quelle futuriste (solo nelle «strutture disarmoniche», senza considerare la «vicenda esteriore»). Di entrambi i movimenti, lo interessavano il «dinamismo in profondità»; solo che nei cubisti «il dinamismo era assente e nei futuristi non c’era profondità». Un rapporto contraddittorio, dunque.
Poi era venuto il tonalismo di Corrente, il postcubismo (con la felicità coloristica di Matisse, richiamata prima), il neonaturalismo (una poetica che aveva coinvolto anche Ennio Morlotti), la breve parentesi astratto-concreta (che conciliava realtà e astrazione), il ritorno ad una sorta di realismo crepuscolare, l’incontro con l’Informale (cui era approdato spontaneamente), l’amore per Bonnard (la luce soffusa) e, infine, una sottile inquietudine. Stadi tutti, questi, d’una ricerca ordinata e paziente. Sullo stesso binario viaggiavano anche Alfredo Chighine, Franco Francese e Cesare Peverelli. Stesse radici forse, ma esiti diversi. La maturità ha spinto Ajmone a rifugiarsi nell’intimità dei suoi racconti, nell’anonimato dei suoi personaggi. Anche gli artisti, talvolta, amano il cosiddetto buen retiro.
Da qui una tensione lirica che viene dal silenzio. Le sue donne hanno l’odore del talco che si dissolve lentamente, sino a diventare ricordo. «Talvolta ritorna/ nell’immobile calma del giorno/ quel vivere assorto, nella luce stupita», scriveva Cesare Pavese. Versi vicini al mondo di Ajmone, alle sue ombre fuggevoli, «come di nube», ai suoi sussurri: «la voce del mare/ fatta ricordo».