Gershwin, jazz nel tempio della sinfonica
Si presenta come un omaccione di almeno un metro e novanta, con le spalle da giocatore di football americano. Eppure entra alla Scala in punta di piedi, Tzimon Barto, il pianista scritturato come solista nel Concerto in fa di Gershwin, che si esegue nell’ambito della stagione sinfonica (in replica stasera). Fa il suo piuttosto bene. E soprattutto dimostra una verità ormai incontrovertibile. Che se le orchestre ormai globalizzate hanno perduto — salvo eccezioni rare — una spiccata identità nazionale, quella per cui potevano suonare bene un certo repertorio ma era loro precluso un cert’altro, di solisti che vengono «da una certa scuola» se ne ascoltano ancora parecchi. E lui, 54enne della Florida, il Concerto in fa lo suona da vero americano, con un’attitudine per tutto ciò che di jazzistico anima questa pagina di Gershwin, che non può che accendere la curiosità e l’applauso della platea, a dispetto di una prova assai problematica del direttore Christoph Eschenbach e dell’orchestra scaligera. Applausi che triplicano poi alla fine del bis, un ragtime di Scott Joplin che è una vera chicca per il pubblico della «sinfonica».
Eschenbach si rifà però nella Sinfonia dal nuovo mondo di Dvorák, opera che piace sempre a tutti ma, chissà perché, resta sempre esclusa dal novero dei capolavori. L’eloquio arriva morbido e soprattutto fluido, che in Dvorák è ciò che conta. E le prime parti — meraviglioso il corno inglese di Renato Duca — danno un contributo da orchestra di rango a un’esecuzione energica, estroversa, viva. E giustamente molto applaudita.